Al mio funerale

un racconto di Giulio Frangioni.

Lui si guarderà intorno. Una ventina di sedie bianche, in fila, lo circonderà. E sarà il prato più verde che lui abbia mai visto quello su cui poserà i piedi.

Camminerà tra le file e nessuno sembrerà notarlo. Ma lui riconoscerà i volti, anche se alcuni non li avrà visti da anni, e sorriderà a quelli tristi. Distribuirà fazzoletti e dirà a ognuno di loro di non piangere, che non ce n’è bisogno. Se non dovesse bastare improvviserà un balletto e, nel caso non fosse ancora abbastanza, proverà con quella barzelletta sui pesci che faceva sempre ridere.

Guarderà ogni invitato negli occhi e cercherà di capire chi è venuto insieme, chi non si parla dall’adolescenza e chi ricomincerà a farlo proprio oggi. Quella sì che sarebbe una vera consolazione, per lui.
Allora cercherà un posto libero dove sedersi insieme agli altri, ma li troverà tutti già occupati. Poco male, penserà. Si sdraierà per terra, sulla pancia, come aveva fatto da giovane con la ragazza dagli occhi a mandorla. Una volta sdraiato gli sembrerà soltanto ieri e, se si girerà, rivedrà la ragazza seduta in prima fila e sembrerà addirittura oggi. Quanto lei sia invecchiata non avrà importanza, né chiedersi se lo sia davvero.
E sdraiato fra le sedie di plastica, una volta salutati tutti, data l’ultima pacca sulla spalla dell’ultimo amico, lui alzerà lo sguardo. Finalmente vedrà davanti a sé lo spalto, il leggio e il microfono. E ancora oltre, con un foglio in mano e due guance rigate di lacrime, vedrà sua figlia ormai grande. Ma quando da lì, in mezzo alla platea, riuscirà a incrociare il suo sguardo, allora le strapperà un sorriso, ne è sicuro.
Certo.
Se non fosse che tutto questo, questo sorridere e dare pacche e incrociare sguardi, lui quel giorno non potrà farlo. Perché sarà già morto.

«Qual è il problema, piccola?»
«Non trovo più il puzzle del Taj Mahal.»
«Certo, guarda che macello la tua stanza.»
«Ma l’ho cercato, ho guardato dappertutto.»
«Ne sei proprio sicura?»
«Non c’è, papà. È sparito.»
«Allora dev’essere in soffitta.»
«Vai a cercarlo, papà, vai tu.»
«Adesso vado.»
Suono di passi paterni che salgono le scale.

La verità è che a lui è sempre piaciuta la soffitta. Tanto per cominciare, un fascio di luce arriva dall’alto e si vedono volteggiare tutti i puntini di polvere: subito dopo il trasloco, l’uomo aveva preso l’abitudine di stare a guardarli per ore. Ma a quel tempo non era ancora un uomo. Allora non la chiamava “soffitta” e non ci andava per cercare puzzle: ci abitava.
Dove ora c’è il passeggino della bambina, smontato già da quattro anni, c’era un divano-letto sfatto. Dove il muro ingiallisce per l’umidità, un tempo erano appesi poster. È stato diversi anni dopo che ha deciso di comprare il piano di sotto. Ma l’uomo è ancora affascinato dalla soffitta e ogni occasione è buona per immaginare il passato. Nostalgia.
Rovistare fra i vestiti passati di moda da vent’anni, doversi piegare quando passa vicino ai muri, per l’inclinazione del tetto. Accovacciarsi alla finestrella e guardare giù, in strada, i pendolari al mattino e le battone di notte: ogni volta che l’uomo deve andare di sopra, si ferma a quella finestra anche solo per un minuto.
Adesso è inginocchiato davanti a una scatola, un treno diretto senza cambi ai suoi ricordi. È piena fino all’orlo e lui ha paura a lasciar correre lo sguardo, è passato troppo tempo.
Era nata quasi come uno scherzo. Il tipo di cose che si fanno, che si dicono, piantiamo un albero, scattiamo una foto. Quando ogni momento è importante e sacro, ma non prendi nulla troppo sul serio. Tutto, in quella scatola, non era altro che una burla da ragazzi. Ma appena l’uomo l’ha aperta e ha visto il contenuto, poco ma sicuro, la voglia di scherzare gli è passata.
Gli cade l’occhio sulla collezione di fumetti dell’Indagatore dell’Incubo, quello con la copertina del gigante alieno in cima alla pila. L’uomo la riconosce: non vede quei fumetti come minimo dai tempi del liceo ma, con sorpresa, si ricorda ancora la trama.
Sorvola sulle vecchie chiavette per il portatile, sui cd punk, sul suo primo pacchetto di sigarette e chissà perché l’ha tenuto. L’occhio va a posarsi sulla busta gialla.
Ricorda il momento sacro in cui l’aveva sigillata. Probabilmente era seduto nello stesso punto dove si trova adesso. Era stata una stupidaggine, adesso non farebbe mai qualcosa del genere. Esita, allontana lo sguardo. Non ha più l’età di una volta.
Ma come è entrato in soffitta, ha capito che oggi il tuffo nei ricordi sarebbe stato più lungo del solito. Gli anni più difficili, quelli in cui era senza un soldo e distribuiva i pop-corn al cinema, in questi giorni quasi gli mancavano. Per questo, appena varcata la soglia, si era diretto verso la scatola.
Adesso prende in mano la busta gialla, la gira. Sulla parte sigillata sta scritto “Discorso”. Fa scorrere l’indice sotto la colla, allarga i lembi, la apre. Cercando di tenere dritto il foglio, con la mano che trema, inizia a leggere.


Il ragazzo stava seduto davanti alla sua finestrella preferita. In realtà era l’unica vera finestra della casa, ma a lui piaceva chiamarla così.
Uno dei privilegi di abitare all’ultimo piano era che, per quanto il resto fosse una topaia, dalla finestra c’era sempre una vista da favola. Adesso la luna era nascosta e il cielo era carico di nuvole, ma da lontano l’orizzonte sembrava quasi viola. In strada c’era Marja Mani di Miele, che aveva il controllo del marciapiede il martedì sera e lasciava vedere tutta la carrozzeria. Certo, mai quanto Lady Lydia, del venerdì, ma non si butta via niente.
I nomi delle donnacce di strada erano un’idea del suo amico quasi coinquilino, così come guardarle da lassù era uno dei suoi passatempi preferiti.
«Vieni un po’ qua, vieni a vedere.» gli disse il ragazzo senza smettere di guardare giù.
L’amico quasi coinquilino non rispose. A malincuore, il ragazzo dovette voltarsi verso il divano per chiamarlo di nuovo, ma gli bastò un’occhiata al televisore per accorgersi che si era addormentato. I calciatori nel videogioco stavano fermi in mezzo al campo.
«Oh beh,» mormorò il ragazzo. «Sigarette gratis.»
Si alzò e si avvicinò al divano, il pacchetto era per terra. Tornò alla finestrella e ne accese una, guardando il cielo viola e non più le battone: senza il suo compare non era la stessa cosa. Perché se non era un coinquilino, era senz’altro un amico. In teoria viveva ancora con i suoi, ma a conti fatti stava sempre da lui. Non pagava l’affitto ma aveva un secondo paio di chiavi, un letto tutto suo, anche una stanza tutta sua. Questo al ragazzo non aveva mai dato fastidio, in fondo il più delle volte nemmeno si accorgeva se in casa ci fosse qualcuno oppure no. Dopo una certa ora i suoi pensieri diventavano sempre troppo sentimentali, ma era vero, rifletté allora: per l’amico quasi coinquilino questo e altro.
Il ragazzo tirò una grande boccata dalla sigaretta rubata. Diventava sentimentale, sì, ma non aveva ancora trovato un modo per smettere di chiedersi che ne sarebbe stato dei suoi amici. Gli venne un’idea. Espirò. Un’idea che avrebbe cambiato il finale di questa storia. Si voltò e prese un foglio di carta dal tavolo, poi la penna a sfera. Tentennante, premette sul cappuccio e la punta fu fuori e dentro, poi fuori e di nuovo dentro. La spinse fuori per l’ultima volta, sospirò e iniziò a scrivere.
Quando due ore dopo l’amico quasi coinquilino si svegliò e si grattò una chiappa attraverso i boxer, il ragazzo stava per sigillare il foglio in una busta gialla. E Marja Mani di Miele si stava probabilmente facendo qualche grassone sui sedili di un Volkswagen.


Lui non ci sarà. Tutto sarà soltanto per lui, dalle sedie di plastica bianche al microfono sul leggio, e lui non avrà mai la possibilità di vederlo. In fin dei conti è ingiusto.
Sua figlia piangerà, vista da tutti, là sullo spalto. Il prete, se ci sarà un prete, sfregherà le mani sudate sulla tonaca e si domanderà quanto aspettare prima di andare a confortarla. O a chiederle di scendere, assicurarle che dopo ci sarà tempo per riprovarci, magari proporle di leggere lui qualunque discorso lei avesse scritto, se ci teneva. E la giovane donna si sarebbe limitata a scuotere la testa fermando i singhiozzi.
«Ciao a tutti,» leggerà una volta recuperata la calma. «Sono così felice che siate venuti.»
Stringerà il foglio, lo scuoterà. Lo avvicinerà il più possibile agli occhi per non vedere tutti gli occhi puntati addosso a lei.
«E vi prego, non preoccupatevi per me. Potrei anche non esserci, come sapete non credo negli spiritelli e…» gli occhi bassi, esiterà. «E balle varie, ma a modo mio sarò presente. Sapervi qui mi riempirebbe di gioia comunque. In fondo, diciamocelo: questo non è un gran bel posto dove stare, dico bene?»
Il crepuscolo si starà tingendo di rosso e l’aria si starà facendo più rilassata. Ogni cosa finirà per essere esattamente come lui l’aveva prevista, sarà inevitabile. Perché per lui sarà sufficiente che tutti siano lì, e questo gli basterà in qualsiasi caso.
«Ad ogni modo, bella lì.» riprenderà sua figlia con voce tremante. «Scommetto che qua attorno è un mortorio. Andiamo, musi lunghi, che motivo avete di piangere? Anche tu, mamma, fattela una risata: se potessi la farei anch’io. Anzi, tu non puoi vedermi ma in questo momento ti assicuro che sto ridendo.»
Queste parole, pronunciate dalla giovane donna in lacrime, suoneranno paradossali. Sulle prime, gli invitati non capiranno e si lanceranno sguardi confusi.
«In questo momento sono seduto a gambe incrociate davanti alla finestra di casa mia,»
E qui tutti annuiranno, esplodendo in un verso di comprensione. Ci saranno occhiolini e risate d’intesa e allora sì, proprio come aveva immaginato, a modo suo anche lui sarà presente. Molto più che una pacca sulla spalla.
Anche alla giovane donna passerà la voglia di piangere e continuerà a leggere. «Sto fumando una sigaretta rubata e mi sono appena reso conto che probabilmente mia madre sarà già morta per quando questo discorso sarà letto.»
Una ventina di sguardi imbarazzati si abbasseranno a terra. Sì, sarà andata così. E per allora non sarà stata soltanto la madre ad andarsene.
«Ma va bene, ragazzi. È normale e non possiamo evitarlo quindi, finché siamo in giro, tanto vale non sprecare il nostro tempo piangendo chi non lo è più. Wow, ma sentitemi, sembro il fottuto Mahatma Gandhi.»
Un paio di sorrisi tra gli invitati. Alcuni saranno intenti a immaginare il ragazzo che quell’uomo era, altri a ricordarlo com’era una volta. E chi l’aveva conosciuto già in quegli anni non potrà dissentire: tutto questo sarà così da lui…
«Non so se riuscirò davvero a razzolare altrettanto bene, nel resto della mia vita, ma ci spero. Poi magari tra vent’anni mi sarò dimenticato dei propositi e di questo foglio e di tutto quel che di buono c’è nel mondo, chi lo sa? In ogni caso, appena lascerete questo funerale, voi seguirete i miei consigli perché vi sto parlando dall’oltretomba. I fantasmi sono fighissimi.»
Oh sì, tipico del ragazzo lasciare un discorso del genere. Questo penserà l’amico quasi coinquilino, sfregando le gambe sulla propria sedia di plastica bianca e sforzandosi di trovare un modo per non piangere.
Sii duro, continuerà a ripetersi. Sii uomo, non cedere. Terrà lo sguardo fisso su un punto, cercherà di riconoscere con lo sguardo gente che non vedeva da vent’anni, giocherà con l’anello al proprio dito. Perché nel frattempo si sarà sposato: avrà trovato una casa, una che sia davvero sua, e ci si sarà trasferito con la moglie. Avrà smesso di fumare e di addormentarsi in boxer sul divano davanti ai videogiochi. Ma non avrà mai lasciato il proprio amico, il proprio compare, il ragazzo diventato uomo. E guardare le battone il martedì sera sarà rimasto il loro gioco preferito. Per questo alla fine non riuscirà a reprimere le lacrime e scoppierà in un pianto degno di un bambino.

«Adesso diciamoci le cose come stanno.» leggerà ancora la giovane donna, richiamando la sua attenzione. «Siccome sono morto e dobbiamo farcene una ragione, potrei rendermi un po’ più odioso scrivendo tutte le piccole cose che mi davano fastidio di voi. Di certo la mia mancanza vi peserebbe molto di meno, quando avrò finito.»
Nell’ascoltarla chiunque si accorgerà di come, davanti a ciò che conta davvero, sia facile prendere tutto un po’ meno sul serio.
«Ma ho come l’impressione che se iniziassi farei in tempo a tirare le cuoia per davvero prima di concludere, e allora sarebbe tutto inutile.»
O di come da sottoterra si possa diventare addirittura più simpatici.
«Sapete?» continuerà la figlia. «Spero di aver colto ogni possibilità. Lo so, non fate quelle facce, lo so che è quello che dicono tutti, ma nessuno l’aveva ancora detto da morto. Che diavolo, spero di essermi dato da fare negli anni che mi restano da vivere. Tipo finire in prigione. Almeno una volta, secondo me è importante.»
L’amico quasi coinquilino scuoterà la testa, scoppiando a ridere fra le lacrime.
«O qualche esperienza con la droga,» andrà avanti la giovane donna. «Qualche forma di sesso estremo, qualche scazzottata. Nessun rimpianto. Voglio averci provato, mannaggia a me.»
Smetterà di parlare e, trovato il coraggio che le mancava, guarderà ciascuno  negli occhi. Il parroco, la ragazza dagli occhi a mandorla, l’amico quasi coinquilino. «Anche se…» leggerà.
Sentirà una forza impetuosa scorrere dentro di lei, dalle parole del padre, da quel discorso che ormai avrà imparato a memoria. Quante volte l’avrà letto, lo saprà soltanto lei.
Lui gliel’avrà già dato da qualche anno, nel caso, non si sa mai. Le avrà raccontato una storia sul giorno in cui l’ha ritrovato in soffitta, qualcosa riguardo a un puzzle del Taj Mahal. Lei sulle prime lo avrà preso per uno scherzo, nel senso, non avrà davvero avuto intenzione di far recitare questa roba a un funerale? Ma col tempo sarà diventata la sua lettura preferita e, sperando di non doverlo leggere mai, ci si sarà affezionata da morire.
«Anche se, nonostante tutto, okay.» riprenderà. «Me ne rendo conto anch’io. Queste sono le stupidaggini che pensavo adesso, a poco più di vent’anni. Datemi ancora un po’ di stagioni e mi sarò trasformato in uno dei migliaia di onesti cravattini borghesi che grazie al cielo popolano la nostra città. E questa delusione sarà stata la mia vita.»
Il vento a questo punto sarà l’unico a parlare, sussurrando tra le foglie che sì, il ragazzo aveva avuto ragione fin dall’inizio. Nessuno potrà dire se davvero sarà andata così, ma di certo la realtà non potrà allontanarsi di troppo da questa descrizione.
«Riesco quasi a immaginarlo, sapete? E mi disgusta. Avrò parcheggiato, ogni mattina per trent’anni, la mia monovolume davanti alla banca dove avevo un lavoro stabile e sicuro. Ogni domenica io e la mia amata-ma-non-troppo moglie caucasica…»
E qui sarà la ragazza dagli occhi a mandorla ad abbassare lo sguardo, imbarazzata.
“Moglie caucasica”, tutto le tornerà in mente all’istante. Lei si ricorderà di quel discorso. Era presente quando lui l’aveva scritto. Era stato una notte, le aveva telefonato, dopo il pomeriggio in cui si erano sdraiati a pancia in giù sul prato. Il telefono l’aveva svegliata, ma ormai era abituata ad aspettarsi chiamate nel cuore della notte. Il ragazzo le telefonava spesso per chiederle se le andava di passare da lui, o se aveva voglia di mangiare qualcosa ai distributori automatici.
Ma quella volta non le aveva proposto proprio nulla. Lei se ne ricorderà alla perfezione per tutta la vita, le si ripresenterà spesso quel ricordo nei pochi anni che le resteranno dopo il funerale: quella volta le aveva recitato una frase.
Ascolta, voglio leggerti qualcosa.
Aveva parlato senza aggiungere altro, senza dirle di cosa si trattasse, senza nemmeno dirle che l’aveva scritto lui. E adesso, al suo funerale, risentirà quella stessa frase dalla bocca di sua figlia.
«Saremo stati invitati ai barbecue dei miei colleghi, rigorosamente dopo essere usciti dalla chiesa al mattino. Oh, e salutato il parroco. Non sia mai che ci dimentichiamo di salutare il parroco, eh cara?»
Lei allora non aveva capito, ma capirà oggi. A volte la vita risponde subito alle nostre domande, a volte non risponde affatto. Questa sarà una delle volte in cui risponde dopo quarant’anni, ma risponde.
Lei aveva pensato che con quelle parole volesse farle intendere che doveva chiedergli scusa per qualcosa. Ma in verità era l’esatto contrario: era lui a volersi scusare. Per tutto quel tempo sprecato a sognare un futuro che sarà sicuramente diverso da come lo pianificavano.
Che cos’è, gli aveva chiesto quella notte. Che cosa intendi, io e te?
No, non io e te. Tutti. Che senso ha sdraiarci sui prati, passare la notte ai distributori automatici, vivere giornate straordinarie se siamo destinati a diventare ordinari? Se un giorno o l’altro il mondo ci costringerà a uniformarci noi lo lasceremo fare, non è vero?
Lei non aveva risposto. Ma oggi il discorso della soffitta lo farà al posto suo. Tutto diventa diverso, è umano. Poster passeggini divani umidità. È una storia imprevedibile il cui scrittore non smette mai di cambiare.


L’uomo che è salito in soffitta in cerca di un puzzle del Taj Mahal sta leggendo il discorso e non può credere ai suoi occhi. Sta con il foglio di carta a un palmo dal naso e passa il dito velocissimo da una riga all’altra.
Quello aperto nella busta gialla è un mondo che lui non ricorda più, così sepolto da sembrare nuovo di zecca. Gli è mancata la ribellione: è da anni che cerca di riviverla, di perdercisi come un tempo. Ora finalmente ha capito perché non riusciva a immaginarla di nuovo. Perché se è ancora in grado di cercarla significa che lui stesso sa dove si trova.
Il suo vagabondare non è più quello di un ragazzo con tutta la strada davanti. Ormai è quello di un uomo che la conosce, la strada. Da troppo tempo ha smesso di sognare il futuro per immaginare il passato.
La finestra alle sue spalle continua a illuminare i granelli di polvere nell’aria sopra un mare di scatole, ma lui ha la mezza idea che, se si voltasse, vedrebbe il divano-letto sfatto come ai vecchi tempi. Adesso ha come l’impressione di esserci, di essere finalmente tornato.
Non interromperebbe quella lettura per nulla al mondo. Accovacciato, senza più sentire le fitte alle ginocchia, lui continua:

“Tra l’altro, mi è appena venuto in mente. Questo dovrebbe essere il mio funerale, no? E vi prego, ditemi…”


«Ditemi, sono curioso: c’è un prete, non so, un diacono, una suora o due, cosa c’è?»
Mentre gli invitati tratterranno a stento le risatine, il parroco si farà rosso in volto, come la tonaca sotto il Venerdì Santo. La giovane donna cercherà di evitare il suo sguardo e continuerà a leggere.
«Scommetto che non ci sono le spogliarelliste che ho sempre detto di volere. Riesco a sentirla da qui la puzza di prete, sul serio.»
Il parroco stringerà i pugni e da rosso si tingerà di viola: come la tonaca in tempo di Quaresima, o come il cielo di notte. Ma non oserà interromperla.
«E le possibilità sono due: o voi ragazzi non mi conoscevate neanche un po’, oppure io sono cambiato. Sono diventato il tipo di persona da invitare delle suore per qualcosa di diverso da un gioco erotico. Prima di morire, mi sarò convertito all’Ordinarianesimo.»
L’amico quasi coinquilino guarderà negli occhi la giovane donna. Cavoli, somiglierà così tanto a lui… Avrà il suo sorriso, le sue fossette nelle guance, quello sguardo da matta. Il tipo di sorriso da “ti rubo le sigarette di notte”, il tipo di fossette da “ti lascio vivere in casa mia gratis”. Lei sembrerà sorridergli, come se gli leggesse nel pensiero. Tutta suo padre: in fin dei conti, proprio una bella ragazza.
«Ma volete sapere una cosa? Mi va bene così. Nel caso, se così fosse, non potrò lamentarmi. E non solo perché sarò morto, ma perché sarà ciò che ho voluto in quel momento della mia vita.»
La giovane donna si passerà una mano fra i capelli, arrivata al punto del discorso che la rende incredula ogni volta che lo legge. In fondo, a ben pensarci, sarà un ragazzo più giovane di lei a parlare davvero. «Certo, ora spero di non diventare uno di quei bigotti buoni a nulla chiusi in se stessi e nel loro piccolo mondo. Ma sarei ancora più chiuso se non ammettessi il cambiamento. Se non mi lasciassi trasportare su una via diversa, anche se ordinaria, dalle persone che mi stanno intorno.»
Vedendo le espressioni meravigliate degli ascoltatori, capirà di non essere l’unica affascinata da quelle frasi. «Ho iniziato a scrivere questo discorso chiedendomi che ne sarebbe stato, di qui alla mia morte, delle persone che oggi amo. Che cosa potrei augurare a ognuno di loro, se di mettere la testa a posto o diventare dei sovversivi. E in questo momento, con il mio migliore amico che dorme in mutande sul divano, sinceramente non so quale sia il futuro migliore per lui. O per nessun altro. Ma mentre scrivevo, porca miseria, ho capito cosa auguro a me stesso.»
Gli altri avranno già intuito il finale.
«Stare con loro, le persone a me care…»
E sarà come se si prendessero per mano.
«… Forse un giorno avrò una moglie,» la giovane donna resterà in silenzio qualche secondo, rimpiangendo una madre mai conosciuta. Così faranno tutti, sentendosi in grado di accettare il dolore.
«O dei figli. È per loro che voglio vivere,» concluderà con un sorriso. «Ovunque mi portino, in qualunque modo mi cambino.»

La giovane donna ringrazierà e scenderà dallo spalto, restituendo il microfono al parroco. Nessuno riuscirà a parlare per un po’, però. Gli invitati resteranno immobili per minuti interi prima di potersi muovere di nuovo. Si guarderanno negli occhi come se si conoscessero da sempre, neanche fossero stati in guerra insieme. A cosa avranno appena assistito? Nessuno saprà mai dirselo, nessuno sarà mai in grado di raccontarlo.
E il ragazzo che ha dato vita a tutto questo non lo vedrà. Il sole tramonterà su un prato, una bara e una ventina di sedie bianche. Il cielo si tingerà di viola ancora una volta, ma lui non ci sarà. Così tutti capiranno, prima di alzarsi, il senso del discorso. Anche se fosse rimasto in vita, lui non ci sarebbe stato comunque. Perché non sarebbe più stato il ragazzo.
In un certo senso, quel ragazzo è già morto nel momento in cui ha sigillato la busta gialla quarant’anni prima. Quel ragazzo, come ognuno dei presenti al funerale, muore ogni giorno da qualche parte, per diventare qualcos’altro. E dev’essere pronto ad accettarlo, come i suoi cari dovranno essere pronti ad accettare di vedere i becchini che sigilleranno la sua bara.


La voce dell’amico  quasi coinquilino arrivò da  dietro. «Che fai, stai guardando le donnacce senza di me?»
Il ragazzo smise di scrivere. Ricacciò in dentro la punta della penna e guardò il foglio soddisfatto.
«Ho finito.» rispose senza muoversi.
«Nel senso che sei venuto?» ridacchiò l’altro.
Attorno a loro, l’oscurità era totale. I calciatori fermi del videogioco se n’erano andati quando il televisore si era spento. Le pareti della soffitta erano tappezzate di lunghe ombre viola. In quel momento, il ragazzo si sentì vicino al suo compare come non lo era mai stato.
«Ho fatto una telefonata, mentre dormivi.»
Rumore di chiappa grattata. «La cinese?» rumore di forte aspirazione dal naso. «Aspetta, ma hai fumato? Sento puzza di fumo, ti sei fregato di nuovo le mie sigarette?»
Il ragazzo gettò un’ultima occhiata alla strada di sotto. Anche Marja Mani di Miele era sparita, forse persino lei a quest’ora era andata a dormire. Si voltò verso il suo amico quasi coinquilino, anche se non poteva vederlo.
«Posso leggerti qualche frase?» chiese il ragazzo. «Non so se metterle all’inizio o alla fine.»
«Cos’è, una poesia per la cinese?» Si sentì qualche cigolio del letto, l’altro doveva essersi alzato a sedere. «Il nuovo John Lennon abbiamo qui. Il tuo problema è che sogni troppo: Gesù, rilassati. Smettila di pianificare, scrivere, pensare.»
Il ragazzo appoggiò la penna a sfera per terra, davanti alle ginocchia. Prese un’altra boccata dalla sigaretta che teneva in mano, diede un colpo di tosse e iniziò, scandendo bene ogni parola sul foglio.
«Tutto questo fa schifo, lo so. È la solita vecchia morale del cavolo, e tutti siamo stufi di quella. Ma lo scopo del mio discorso non è lasciarvi con una bella lezione da portarvi a casa.»
Aspettò una qualche reazione, ma il suo compare tacque.
«Oggi lo scopo, davanti a un morto e a un botto di gente che piange, è lanciare un enorme chissenefrega in faccia a tutto. Alla faccia mia, alla faccia vostra, alla faccia di tutti quelli che se ne sono andati prima di noi e alla faccia di chi ci dice che preoccuparcene è importante…»
«Ci sta.» lo interruppe l’amico. «Scusa bro, continua.»

“…Chissenefrega, quando sarete morti vi accorgerete di aver sprecato un sacco di tempo a decidere chi siete. E là fuori, nel mondo dei vivi, sarà sempre pieno di gente pronta a dirvi di essere ciò che volete, ma chissenefrega. Io sto per portarvi al livello successivo, vi dico: non siate nulla. Smettetela di darvi caratteri e definizioni e correte ad abbracciare chi amate, gente, al diavolo tutto il resto. Chissenefrega. Amen.”


L’uomo smette di leggere. Resta con lo sguardo fisso nel vuoto, sui granelli di polvere. Basta perdersi, basta. È ora di tornare dalla bambina, prenderla in braccio e riempirla di baci. Al diavolo tutto il resto, come avrebbe detto una volta.
Piega il foglio, lo rimette nella busta gialla e la chiude di nuovo. Si alza in piedi. Accidenti che dolore, non ha più l’età per starsene rannicchiato così. Si infila la busta nella tasca posteriore dei pantaloni, pronto ad allontanarsi. Lascia la scatola aperta e le copertine dell’Indagatore dell’Incubo all’aria, proprio sotto il fascio di luce della sua finestrella preferita.
Adesso deve tornare da chi ama.
Lui e il ragazzo di una volta sono due persone completamente diverse, ma sotto sotto commettono lo stesso errore. Uno ricorda il passato, l’altro sogna il futuro.
Ma il ragazzo che oggi chiude a chiave la porta della soffitta e torna di sotto è questo: un uomo nel presente. A partire da ora, se non altro, se ne frega di cambiare.

Suono di passi paterni che scendono le scale.
«Papà! Hai trovato il puzzle?»
«Cosa? Quale puzzle?»

E va bene, diciamo a partire da ora.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *