Carla, ti richiamo io

un racconto di Giulio Frangioni

In memoria del Duca Bianco.

“Ben sopra la Luna,
Il pianeta Terra è blu
E non posso farci nulla.”

“Space Oddity”, David Bowie

Major Tom e le regole

Bzzz. Torre di Controllo a Major Tom. Bzzz.
Major Tom, ci ricevi?

Si guarda intorno. È solo. In tutta onestà non ha granché voglia di rispondere. Sposta lo sguardo sull’interruttore blu, così lontano per premerlo: dovrebbe allungarsi fino al fondo della plancia. Stendere il braccio, torcere il busto, piegare la schiena. Al corso di addestramento ti insegnano che la spina dorsale è la prima parte del corpo a spezzarsi in caso di depressurizzazione. Secondo le statistiche, un caso su centottanta: se non ti prendi cura della tua schiena rischi in continuazione di spezzartela.

Riesci a sentirci, Bzzz, Major Tom?

Scuote la testa. Allunga la mano all’interruttore blu, ci appoggia il dito. Deve premerlo. Sono nove anni che si prepara per questo momento, nove anni per premere quel pulsante.
Il dito, con un tremito, gira l’interruttore. On: Circuito acceso.
«Major Tom a Torre di Controllo.» risolleva la mano. «Vi ricevo.»
Il dito continua a tremare nel guanto troppo grande. È così che dev’essere, anche la tuta gli sta larga: le braccia quasi non toccano la manica. A ogni movimento, il tessuto in goretex sfrega con un rumore sottile. Lo stesso rumore che sta emettendo la radio.

Bzzz. Major Tom, assumi le proteine. le trovi nel supporto protettivo della manica destra.

Il dischetto protettivo in realtà è solo una tasca. Su uno space shuttle bisogna dare nomi complicati a qualsiasi stupidaggine e ripetere i comandi all’infinito.
Non c’era bisogno neanche di dirgli delle proteine, conosce a memoria la procedura. Proteine, casco, accensione. Non potrebbe dimenticarsene e, anche se l’avesse scordato, c’è scritto tutto sul manuale di fianco a lui. Se non si ricorda qualcosa gli basta piegare la schiena, prenderlo e sfogliare fino alla pagina giusta.
È tutto calcolato per essere esattamente a una torsione di schiena da lui.

Torre di Controllo a Major Tom, hai ingerito le proteine? Bzzz.

Dovrebbe prendere il barattolo dalla tasca e versarsi in bocca le tre pastiglie, ma si sente pesante. Improvvisamente non vuole più partire, vuole gettare via gli ultimi nove anni della sua vita. Gli gira la testa.
«Sì,» mente. «Proteine ingerite. Inizio procedura casco.»
In orbita gli incidenti per un casco non indossato sono più frequenti di quanto si pensi: uno su venticinque, secondo le statistiche. A sentire i cervelloni alla Torre di Controllo, la colpa degli incidenti sono sempre astronauti che non rispettano il manuale.
L’idea di venire lanciato in orbita non lo entusiasma più come quando era giovane: hanno ucciso ogni romanticismo.
Major Tom porta la mano sotto al sedile e stringe il casco. Se lo calza in testa tenendo gli occhi fissi sul monitor davanti a sé. Cosa ci sia di così interessante nel display lampeggiante del pannello di controllo, non lo sa nemmeno lui. Il monitor F3; serve per monitorare la pressione interna all’abitacolo; bla bla bla, tra i 54 e i 75 Pascal. Niente di più, niente di meno.
Quelli della Torre di Controllo sono riusciti a uccidere tutta la magia dello spazio, del suo sogno infantile. Razionalizzano, insegnano cause e decolli, effetti e atterraggi, rendono ogni meccanismo comprensibile. Ecco quello che la televisione non ti dice sui viaggi spaziali: sono di una noia mortale prima ancora del decollo. E alla fine diventa un mestiere come qualsiasi altro.

Io e le regole

Corro. Muovendo le braccia avanti e indietro sento la camicia bagnata strisciarmi lungo le ascelle.
Scendo le scale tre gradini alla volta, aggrappandomi al corrimano per non scivolare. Non posso voltarmi, perderei troppo tempo e loro mi sarebbero addosso.
Devo continuare a guardare davanti, lungo il tunnel della stazione. Da qui posso infilarmi in un binario qualsiasi, se sono fortunato raggiungerò l’uscita. Quanto saranno lontani adesso, loro? Sento il suono di passi affrettati, ma non riesco a distinguere i loro dai miei. Devo solo continuare a correre: non posso fermarmi, anche se questa non sembra nemmeno una vera fuga.
Non è così che doveva andare. Non era questo che immaginavo quando tre anni fa ho preso la grande decisione. Cosa mi è successo?

Raggiungo la fine della scala, salto giù dal quarto gradino. Sono nel tunnel. I miei occhi fanno fatica ad abituarsi al buio, ma dev’essere così anche per gli sbirri là dietro. Poco distante, mi sembra di vedere il contorno scuro dei muri. Non so da che parte sia l’uscita, vado verso destra. L’importante è non fermarsi, anche se non sono eccitato come immaginavo. Non mi sento un eroe, nonostante io sia stato finalmente beccato.
Intanto i miei occhi si stanno abituando al buio: le piccole lampade appese alle pareti rivelano sequenze di graffiti. Scorrono veloci ai miei fianchi, e poco più in alto i numeri dei binari.

Da sopra la mia testa sento la voce metallica fare il suo dovere.
«Il treno regionale 2524…»

Continuo a correre. Davanti a me il tunnel vuoto si allunga all’infinito. Al fondo non vedo l’insegna verde dell’uscita, ma riesco a immaginarla. Tutt’intorno a me si inseguono graffiti: tag, scritte, simboli, scene di sesso. Chi li ha disegnati doveva sentirsi ribelle, convinto di giocare un brutto tiro allo Stato con quelle bombolette. Proprio come me quando ho preso la grande decisione.
Ho una fitta alle ginocchia, non sono abituato a correre così veloce. Posso solo sperare che non lo siano nemmeno i controllori dietro di me. Non sento più i loro passi.

Cerco di controllare il mio respiro. Dentro dal naso, fuori dalla bocca. Mi concentro sulla camicia appiccicata alle ascelle. Mi concentro sul sudore che mi bagna la fronte. Mi concentro su tutto ma non sul motivo per cui sono qui. Devo smetterla di mentirmi: non sono un ribelle. Non più. Tutto questo sarebbe stato perfetto tre anni fa, allora sì che mi sarei fatto beccare volentieri. Anzi, forse il vero scopo per cui ho iniziato a viaggiare in treno senza biglietto era proprio quello di poter minacciare il controllore. Sentire un brivido, non dare i documenti, scappare alla prima fermata. Farmi rincorrere. Adesso farmi rincorrere mi sembra l’idea più stupida che abbia mai avuto. Ora il biglietto non lo compro solo per abitudine, non è più un insulto allo Stato. Questo maledetto Paese non cambierà mai.

«… È in arrivo al binario uno. Si pregano i gentili…»

Mi sforzo di ascoltare oltre l’annuncio. Quella voce gracchiante mi rimbomba nelle orecchie, sta coprendo tutto. Guardo per terra, le piastrelle del pavimento sono sporche, alcune rotte. Per forza che non puliscono, questo Stato va a rotoli. Ci sono cartacce e segni di impronte ai lati, sotto alle pareti del tunnel.
Continuo a tenere la testa piegata per lo sforzo. Guardo i miei piedi. Ascolto i miei passi. Guardo piedi e ascolto passi, guardo e ascolto, piedi e passi. I miei piedi e i miei passi. Non coincidono.

«… Allontanarsi da…»

Non coincidono, quelli che sento non sono i miei passi. Gli sbirri sono più vicini di quanto pensassi. Non riesco a tenere questa velocità, rallenterò prima o poi. Adesso sento il loro respiro, quanti sono? All’inizio erano in due, adesso sento ansimare dietro di me almeno sei persone. L’insegna verde continua a non vedersi, mi rendo conto di qualcosa: non arriverò all’uscita. Mi prenderanno prim

Major Tom e il grande balzo per l’umanità

Nella cabina di pilotaggio l’aria inizia a farsi pesante, Major Tom si tiene alla maniglia del sedile. Ci sono maniglie come quella a ogni angolo della cabina: gli torneranno utili per quando sarà fuori dall’atmosfera, a gravità zero.
Allunga il piede sotto alla plancia e spinge di lato i cavi di accensione dei monitor. Dev’essere tutto in ordine, per rispettare le norme di sicurezza. Si decide ad aprire la tasca della manica e a prendere il barattolo di vitamine. Lo stappa con un altro sfrigolio del tessuto in goretex e si butta veloce in bocca le tre pastiglie. Non si sa mai. Deglutisce e aspetta.
Il segnale radio torna a farsi sentire, più flebile.

Bzzz. Torre di controllo a Major Tom, inizio conto alla rovescia. Meno dieci secondi al decollo. Nove, otto.

La mano di Major Tom corre ad accarezzare il pannello di controllo della plancia. Sfiora i pulsanti: regolatore dell’elica di areazione, iniettore di vapore acqueo. Quando torna con le dita sull’interruttore blu, non riesce a reprimere un fremito. Da quel bottone dipenderà la sua comunicazione con la base. Una volta in orbita, l’interruttore blu sarà tutto ciò che lo legherà ancora alla Terra.

Sette.

Il moschettone appeso alla tuta di Major Tom inizia a vibrare, ma lui non ci fa caso. Continua a guardare il pulsante blu della radio.

Sei. Bzzz.

Il gancetto della tuta tintinna.

Cinque.

Il tintinnio è più forte. Major Tom lo sente e volta la testa di scatto da una parte all’altra, ma non vede nulla. Mentre cerca di individuare il punto da cui arriva il rumore, un’altra voce si fa sentire dal secondo canale radio.
«Major Tom,» mormora la voce.

Bzzzquattrozzz.

Il tintinnio continua, lo stordisce con il suo frastuono.
«Vi ricevo.» ripete al secondo canale radio, continuando a muovere gli occhi da una parte all’altra dell’abitacolo.
«Major Tom,» ripete a voce più alta l’uomo nella radio.

Tre.

Lui abbassa la testa fin quasi a toccare l’interruttore blu con la protezione del casco.
«Vi sento, Torre di Controllo!» urla.

Due.

Adesso il moschettone è impazzito, assordante. Major Tom si abbassa ancora di più, fregandosene della schiena e della depressurizzazione e di tutti gli insegnamenti del corso.
Poi guarda giù, sul proprio petto. Ecco da dove proveniva il tintinnio. Tutto il suo corpo sta tremando come non ha mai tremato in vita sua. Ha una fifa boia.
La voce dal secondo canale torna per un secondo. «Che Dio ti benedica, Major Tom.»

Uno, Bzzz. Decollo.

Io e il grande balzo per l’umanità

«… La linea gialla.»

Non riesco più a controllare il respiro. Il “dentro dal naso, fuori dalla bocca” è andato al diavolo. I passi dietro la mia schiena si fanno sempre più vicini, mi prenderanno. Dovrei correre più veloce anche se sento di essere sul punto di fermarmi.
Non posso mandare all’aria tutto, aspetto questo momento da tre anni. Li ho minacciati, li ho spinti, adesso mi arresteranno. Il moto reazionario non ha più senso. Qualche secondo fa sembrava solo un vecchio cliché, adesso ho davvero paura. Non posso continuare.
Giro a destra al primo binario che raggiungo. Le scale sono troppo alte. Tengo la testa alta, lo sguardo fisso sul numero 1 del cartellino sulla banchina per non vedere quanti gradini mi mancano. Mi tiro su tenendomi al corrimano, le braccia trascinano il resto del corpo. I palmi delle mani scivolano verso il basso, mi spingo in avanti per non perdere l’equilibrio. Se tengo il collo abbastanza piegato posso vedere il cielo scuro. Continuo, un gradino alla volta, a precipitare verso quel cielo.

Sento la voce di una donna poco lontano dalla scala. Supero l’ultimo gradino, la raggiungo. Sta parlando al telefono. Quando le passo di fianco correndo, si zittisce. Mi vede per quello che sono: non un sognatore, non un rivoluzionario. Solo un idiota che non ha pagato il biglietto del treno.
Come mi allontano, la donna riprende a parlare.
«No, ma infatti hai ragione, Carla.» per lei, per il suo piccolo mondo, tutto è tornato alla normalità. «Carla, ti ho detto che hai ragione, però se…»
Smetto di ascoltarla. Continuo a correre, ma sono in trappola. I controllori mi stanno attaccati al sedere, ma di qua non c’è nessuna uscita. Per di più, credo che uno abbia chiamato una pattuglia quando l’ho spintonato per uscire dalla carrozza. È inutile andare avanti, adesso che l’obiettivo è diventato scappare, non più farmi prendere.

Ho la gola secca, mi viene voglia di tossire. Mi pulisco un filo di bava con il polsino della camicia. Sono quasi al fondo della banchina, da lì non ci sarà più modo di scappare.
Lancio un’occhiata a sinistra e la vedo. L’insegna verde, lì, subito dopo le rotaie. La via d’uscita. Oltre il portone aperto riesco a vedere l’interno della stazione, tutto è illuminato.
Devo attraversare i binari, ma non posso fermarmi per scendere. Devo saltare giù senza smettere di correre, gli sbirri non mi seguiranno fin dentro la stazione.
È la mia unica alternativa. Mi do la spinta con il piede e salto giù, dritto fra i binari. Atterro a piedi uniti. Il portone è a pochi metri da me. Centinaia di passi si sono fermati. Anch’io.
Anch’io mi sono fermato. Mi sono fermato in mezzo alle rotaie e non posso più andare avanti. Solo ora mi rendo conto di aver appena commesso l’errore più grande della mia vita: è finita. Riesco a spingere su e giù la gamba sinistra, ma la destra si è come bloccata. Tiro il piede verso l’alto ma non viene via. Si è incastrato.

Major Tom e le stelle

Tenendosi aggrappato alla maniglia, Major Tom cerca di decifrare il messaggio radio. È diventato debolissimo, la voce che parla è quasi irriconoscibile. Non sembra più umana.
Lui non riesce nemmeno a voltarsi, a gravità zero. Può solo rimanere appeso alla maniglia. Non è per niente come al corso di addestramento, nessuna lezione lo aveva preparato per questo. Ore e ore di lezioni, di manuali da studiare, di acronimi da memorizzare, e nessuno aveva previsto che la comunicazione sarebbe caduta.
C’è qualcosa che non va. Dev’esserci stato un errore di calcolo a monte. Prima di partire, prima di reclutare Major Tom, prima ancora di costruire lo space shuttle. La rotta è fuori controllo.
Al corso di addestramento gli hanno spiegato che, secondo le statistiche, se c’è un intoppo è quasi sempre colpa di un errore dell’astronauta. Quello che non gli hanno detto però è che gli insegnanti del corso di addestramento non sono astronauti. Nemmeno a calcolare le statistiche sono gli astronauti, né a riferire le cause degli incidenti. Le vere cause non vengono mai a galla, adesso Major Tom ne ha la certezza.
C’è qualcosa che non va: Major Tom non ha bisogno che i cervelloni glielo spieghino, così come non gli serve qualcuno che gli ricordi di prendere le vitamine. Eppure, loro lo dicono lo stesso.

Torre di Bzzz a Major Bzzz. C’è qualcosa che non va.

La navicella spaziale ha lasciato l’atmosfera terrestre: il retro della capsula si è staccato, un pezzetto dopo l’altro. Major Tom è in orbita. Il suo sogno si è avverato, ma lui sa che nella procedura c’è stato un errore terribile. È fuori dalla rotta prestabilita di centinaia di chilometri.
I parametri sul monitor sono al giusto livello, la pressurizzazione è nella percentuale corretta, il carburatore è a posto. Ma lo schermo collegato alla Torre di Controllo ha perso contatto. Da là sotto, sulla Terra, non lo stanno più guidando, forse stanno già riferendo ai giornali la causa della sua morte. Diventerà un esempio da non imitare per le future reclute, raccontaranno il suo errore ai corsi di addestramento. Cosa si inventeranno? Che ha aperto troppo presto il bocchettone di sicurezza, che ha dimenticato di infilarsi il casco?
A Major Tom scappa una risata. È strano il suono di una risata a gravità zero, Major Tom se ne rende conto. Non può invertire una rotta sbagliata. Grazie tante per le statistiche.

Senza lasciare la maniglia, Major Tom percorre la plancia con lo sguardo. In mezzo a tutti questi pulsanti deve essercene uno che gli possa salvare la vita. E invece no. Chi ha progettato lo space shuttle si è dimenticato di inserire l’interruttore “Salva Major Tom”.
Eppure lui non è più spaventato. Il terrore ha lasciato il posto alla calma. Non può più premere nessun pulsante per uscire da questa situazione. È in una stramaledettissima astronave a migliaia di chilometri dal proprio pianeta. L’unico modo per salvarsi sarebbe stato non imbarcarsi mai.

Bzzz. Major Tbzzzz.

È troppo. Questa radio non fa che innervosirlo, non capisce una parola. È tempo di aggiungere una nuova procedura al manuale. Piega la schiena, allunga il braccio, spegni quell’accidenti di radio. Major Tom stende il dito sull’interruttore blu e lo porta su Off. Circuito spento. Ora i cervelloni della Torre di Controllo penseranno che la navicella si sia allontanata troppo e che lui non li riceva più. Lo daranno per morto, forse in fondo è meglio così. Se nel giro di poco dovrà esserlo davvero, preferisce trascorrere le sue ultime ore da solo con se stesso.
Non è rassegnazione, è un riscatto.
Major Tom dà una spinta alla maniglia e l’assenza di gravità pensa al resto. In un attimo è dall’altra parte dello space shuttle, che gira su se stesso e ammira il vortice di cavi e comandi. Quelle levette, quelle tastiere, Major Tom ha studiato qual è la funzione di ciascuna di loro: sa perché si trovano in quel punto e sa in che circostanze si devono usare. Lo sa, ma non gliene frega più nulla.
Come saltando sui tappeti elastici, si spinge fino alla porta in fondo alla navicella. Agita le braccia nella tuta troppo grande e, con uno sfrigolio del goretex, afferra la maniglia della porta. La apre con il braccio e, senza lasciarla, si dirige nella camera di decompensazione. Richiude la porta alle sue spalle. Si avvicina alla seconda porta, quella che dà fuori, sullo spazio. Appoggia il palmo della mano sulla maniglia, le dita nel guanto non tremano più. Con l’altra mano fa scattare la sicura del casco. È pronto.

Major Tom sa di allontanarsi dal mondo, sa di allontanarsi per sempre. Tira la porta, sente un leggero risucchio di aria che viene aspirata attorno a sé. La apre completamente: si affaccia.
Buio. Nero. Stelle. Come ogni notte, solo che qui abbracciano tutto il campo  visivo. E così grande, eppure così piccolo, al centro… ll pianeta Terra è blu.

Chissà se qualcuno lì sotto sta guardando le stelle in questo momento. Chissà cosa sta pensando chi alza gli occhi al cielo, chissà se si immagina un uomo perso nello spazio. Chissà se è consapevole di non essere solo.

Io e Major Tom

No. Non può essere vero. Questo suono non può essere la realtà, è un incubo. No. L’avviso dell’altoparlante, il binario uno…
Non ci riesco, non c’è verso. Niente da fare. Questo inutile piede non si alzerà mai dalle rotaie, e nemmeno io.
Sento il treno che arriva. Mi volto verso la banchina e vedo ciò che non mi sarei mai aspettato di vedere. Non c’è nessuno sbirro. Avevano smesso di seguirmi già nel tunnel. Non c’era bisogno di continuare a correre.
Ma non è solo questo. Vedo anche dell’altro.
So che sarà l’ultima immagine che vedrò nella mia vita, il rumore del treno si avvicina sempre di più alle mie orecchie e al mio cuore. Vedo la signora di prima. Ha ancora il cellulare appoggiato all’orecchio, ma la sua bocca è immobile. Per un istante quasi impercettibile mi sembra di udire una voce che gracchia all’altro capo della sua telefonata, ma forse lo sto immaginando. Forse neanche la signora riesce davvero a sentire. Ha gli occhi grandi e le pupille piccole puntate su di me, le si vedono i tendini che sporgono nel collo. La bocca è aperta e si muove a vuoto.
«Carla, ti richiamo io.» mi sembra che dica, ma il suono del treno ormai mi riempie le orecchie.
So che mi sto allontanando dal mondo, che mi sto allontanando per sempre. E a dire il vero, non potrei essere più calmo.

Bzzz. Torre di Controllo a Major Tom. Bzzz. Major Tom, ci ricevi?

No, Torre di Controllo. No che non vi ricevo.
Penso a Carla, che non so riguardo a cosa avesse ragione. Non so nulla di Carla, della sua telefonata, della sua vita: sono sempre più lontano da lei. Io che  non pagavo il biglietto, che volevo sentirmi rivoluzionario, sono lontanissimo da tutto. Nell’ultimo secondo della mia vita, alzo la testa al cielo e guardo le stelle. Chissà.

(Excelsior!)

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