Una volta fuori

una tappa di Nina Gramasi.

Continuo a finire in carcere ormai da un po’ di anni… ma per ora mi hanno sempre fatto uscire.

E una volta fuori, vado al parcheggio, prendo la mia auto e me ne torno a casa.
La settimana successiva, di nuovo.
E poi quella dopo, ancora.
E così via.

È sempre una liberazione uscire. L’aria fuori sembra più respirabile, anche se il portone dà immediatamente su una strada super trafficata piena di smog.
Sarà che tutti quei cancelli, quei soffitti bassi, le pareti cupe, l’odore di chiuso e di fumo creano là dentro una sorta di cappa d’infelicità che fa venire il fiato corto.

Fuori invece lo sguardo può spaziare, guardare lontano, cambiare scenario.

Io c’ho provato – di settimana in settimana – a far respirare meglio quelli che da là dentro non potevano uscire… a dilatargli gli orizzonti, per lo meno quelli interiori, ma non è bastato.

Dopo un anno, due, cinque, dieci, venti là dentro, la vitalità si spacca e anche l’argento vivo diventa una latta ammaccata.
Capisco che bisogna fare qualcosa.

Al corso per diventare volontari, mi aveva molto colpito un relatore che aveva detto che era necessario che i muri venissero perforati, che il carcere non doveva essere sinonimo di isolamento, che doveva diventare uno dei quartieri della città, dove la società civile entrava, svolgeva attività, chiacchierava, si confrontava.

Ma ora mi accorgevo che questa “perforazione” non poteva andare solo in un senso.
Certo, bisognava portare sempre più la società civile in carcere, ma era necessario anche portare sempre più il carcere nella società civile.
Bisognava farli uscire, farli tornare a guardare l’orizzonte, a respirare a pieni polmoni.

Ma come?

Non sono una giurista e non sapevo bene come funzionavano le cose.
Avevo sentito parlare di permessi premio, scarcerazioni anticipate, domiciliari, ma il quadro, nella mia testa, era molto fumoso.
Non sapevo a chi chiedere, ma mia madre mi disse che da bambina era stata con suo padre a comprare delle piantine in un posto dove ospitavano i detenuti.

Non aveva idea se quella cascina esistesse ancora, ma mi indicò la strada e mi disse di provare.
Ero un po’ titubante: non avevo capito bene di che realtà si trattasse e presentarmi così in casa di sconosciuti, mi preoccupava un po’.
Presi perciò informazioni da alcune amiche volontarie: mi dissero che si trattava di una comunità, una specie di convento, dove c’erano degli strani frati, che – nei tempi andati – facevano gli operai o i muratori.

Non sono mai andata molto d’accordo con i preti, tanto meno con le suore – che sono poi la versione femminile dei frati – e quindi avevo quasi deciso di rinunciare, finché un detenuto, durante un colloquio, mi disse che lui c’era stato durante la sua precedente carcerazione per alcuni permessi premio.

“Non ha molto funzionato”, pensai, “se ora è di nuovo qui…” – ma tenni per me questa considerazione e gli chiesi come si era trovato.

«Bene!», mi disse «Ci sono stato quattro o cinque volte, per due o tre giorni di fila. All’inizio ero un po’ frastornato, non capivo bene chi erano gli ospiti e chi comandava. Ma mi hanno trattato bene. Davo una mano con i lavori di casa. Avevo una stanza tutta per me. E poi, si mangiava bene».

Fu quest’ultimo particolare a convincermi: se in un posto si mangia bene, non possono essere poi così bigotti.

Insomma, ci andai.

A parte le imprecazioni pronunciate sulla stradina stretta e tutta curve che portava alla cascina, devo dire che – appena giunta – rimasi colpita. Sulla facciata campeggiava la scritta “Restiamo umani” e in cima alla scala sventolava la bandiera arcobaleno.

Scoprii poi che originariamente c’era una bandiera della pace, di quelle che riempivano le manifestazioni dei primi anni 2000, la quale però col tempo si era sgualcita. Il frate anziano che era andato a ricomprarla aveva trovato sì la bandiera arcobaleno, ma senza la scritta “Pace” e aveva pensato che andava bene lo stesso. Una volta a casa, gli altri si erano accorti che quella era la bandiera della comunità LGBT+, ma a nessuno venne in mente che stonava in quella casa e perciò la tennero così.

Non sapevo come muovermi. Una volta parcheggiata l’auto, cercai un campanello, un cancello, una porta. Ma non c’era nulla. Perciò feci per imboccare la scala, quando da sotto gli archi fece capolino un signore completamente senza denti, che parlava con qualcuno.
Feci per chiedergli a chi potevo rivolgermi per avere informazioni, ma mi accorsi che non c’era nessun altro e che il suo interlocutore era lui stesso.

Un po’ intimorita salii ancora qualche gradino e finalmente vidi un persona che mi sembrava più normale. Oddio, era su una carrozzina e diceva in malo modo allo sdentato di spostarsi perché non riusciva a passare, ma almeno, quando mi vide, mi salutò e mi chiese chi stessi cercando.

Scoprii che quel signore era un giurista e fu proprio lui a spiegarmi tutti i meccanismi della carcerazione: innanzitutto la differenza tra arresti domiciliari e detenzione domiciliare, sulla quale ogni tanto faccio ancora confusione; poi la differenza tra persone in attesa di giudizio e persone con una condanna definitiva; infine i tempi e i modi per poter accedere alle misure alternative alla detenzione, i permessi, i dati sulla popolazione carceraria, ecc…

Mi invitò a fermarmi per pranzo e così ebbi l’occasione di incontrare per la prima volta le persone che abitavano in quel posto strano. Erano in dodici. E oggi, che li conosco un po’ meglio, vorrei presentarveli a due a due.

Per primi, la più anziana e il più giovane: hanno 91 e 4 anni. Lei è piemontese e lui mezzo occidentale e mezzo asiatico. Lei è bianchissima di capelli e lui marroncino di carnagione. Lei va piano, lui sfreccia di qua e di là, con una macchinina rossa sempre in mano. A tutti e due manca un dente.

Poi ci sono un frate di 76 anni – quello della bandiera – e una bimba di 8, la sorellina del bimbo di cui sopra. Sta imparando l’italiano ed è molto tenera. Lui invece è la memoria storica di questa casa, perché ci abita dagli anni ’70, più o meno da quando questa realtà esiste.

È una comunità di quei tempi, che vi piaccia o no.

Seguendo l’ordine vecchietti-giovanotti, troviamo poi il signore senza denti che ogni tanto parla da solo e che spesso ha un secchio con cui va a dare da mangiare ai maiali (in effetti, ho scordato di dire che qui ci sono anche loro, insieme a conigli e galline, di cui si occupa il frate della bandiera), e la mamma dei due bimbi. Anche lei sta imparando l’italiano, anche se la più grande fatica è adattarsi al nostro clima, dopo trent’anni a 20° C come temperatura minima…

C’è poi il mio amico giurista che fa pendant con una professoressa di filosofia quarantenne che vive qui da circa sette anni. Lui, ovviamente, si occupa degli affari giuridici e delle relazioni con gli avvocati dei detenuti ospitati e lei è un po’ un tuttofare: dall’organizzazione delle attività, alle pubbliche relazioni; dalla lavanderia al decespugliaggio (che non so nemmeno se si chiami così).

Poi ci sono l’altro frate, che si preoccupa degli aspetti amministrativi e sanitari, oltre a gestire quattro parrocchiette e a fare la spesa per tutti, e l’ortolano di casa, un signore musulmano che riesce a far venire i meloni e le angurie in Piemonte.

Al centro del gruppo, il papà dei due bimbi, un cuoco sopraffino che per motivi di salute si è ritrovato a dover reinventarsi la vita e una signora di mezza età che – dopo una vita a vivere con i più storti della società (nel senso letterale della parola) da suora – ha deciso di tenersi la parte migliore e continuare a lavorare con gli storti senza più fare la suora.

Loro vivono insieme, mettono i loro stipendi in comune, non hanno un capo, ma provano a gestire il “potere” insieme e soprattutto ospitano persone in difficoltà, tra cui i miei detenuti.
Parlando con loro, però, ho scoperto che il problema dell’“una volta fuori” ce l’hanno anche loro. Una volta che le persone ospitate hanno finito il loro percorso, spesso non sanno dove andare, non hanno una casa e nessuno che li prenda a lavorare.

Ecco perché, insieme, stiamo pensando a quali soluzioni inventare.

Se qualcuno ha qualche idea o voglia di buttarsi in questo progetto, ce lo faccia sapere.

all pictures by Shawn Theodorencio.

Leggi anche…