Passaggio a nord-ovest

una tappa di Alessandro Menon.

Non ci si può sbagliare.

Uscendo da Torino in auto non si deve fare altro che imboccare l’autostrada più costosa d’Italia e dirigersi verso Occidente, oppure imbarcarsi su uno degli scassoni biancoblugrigi noti come “Regionali Veloci” che ogni giorno percorrono stancamente decine e decine di volte la stessa tratta, e in poco più di un’ora si è lì. A Bardonecchia la prima cosa che vi accoglie se viaggiate su rotaia è il bar-tabaccheria con gratta-e-vinci e calendari dell’Arma appesi a grappoli dietro la cassa, un bancone infinito dalla dubbia pulizia e le relative torme di camionisti slavi che vi si accalcano placidi a consumare alcolici come elefanti alle pozze.

Anche loro battono pigramente quelle strade antiche, sui loro pachidermi a benzina di dodici ruote, per riversare ogni genere di merci dai due lati del confine. Se alzate la testa noterete enormi pannelli pubblicitari svettare dalle cime più vicine per darvi il benvenuto nel fiore all’occhiello della Val di Susa, ultimissimo scampolo d’Italia prima della Francia, anzi dell’antico e altisonante “Delfinato”.

Aria fresca e secca, boschi folti, prezzi indecenti e infiltrazioni mafiose; se la Lonely Planet avesse un minimo di riguardo per l’onestà intellettuale metterebbe questo nella pagina di presentazione del “Comune più a Ovest d’Italia” (come si vociferava di volerlo ribattezzare, pur di attirare due spicci in più). Bardo porta con sé la complessità di chi ha cambiato più volte anima e non si lascia mai guardare negli occhi fino in fonda, tra il pudico e lo sfrontato.

Da caposaldo Longobardo a valico alpino conteso tra conti di Albon e duchi di Savoia passò a essere teatro di massacri tra valdesi e cattolici nel sanguinoso Cinquecento, per diventare stabilmente possesso sabaudo nel 1814 -dopo secolari contese con le autorità francesi/autoctone di turno.

La sua fisionomia da cittadina non propriamente “nazionale” bensì genericamente “alpestre” ancora si può ravvisare passeggiando tra le vecchie case fatti di muri in pietra o inerpicandosi verso le cadenti baite di legno scuro sparse qua e là nella conca bardonecchiese.

Facilmente la si può scambiare per uno dei paeselli che stanno appena al di là della linea sulla cartina, come Modane o Briançon, o per uno dei tanti borghi alpini che punteggiano il Nord. Ma, a differenza che altrove, qui la modernità ha sovrapposto alle tradizioni alpine strati e strati delle sue migliori invenzioni: nell’ordine un traforo ferroviario datato 1871 (nel 1980 divenuto anche traforo stradale) e il turismo invernale di massa circa un secolo dopo.

Oggi Bardonecchia si divide tra la sua anima frontaliera e quella di località sciistica per famigliole munite tanto di seconda casa quanto, generalmente, di grassi conti correnti off-shore.

In realtà i ruggenti anni di piombo hanno visto arrivare tra le montagne innevate sia la vecchia e ricca borghesia del centro storico di Torino sia le famiglie dei “quadri intermedi” e operai della Fiat che con anni di risparmi potevano permettersi un piccolo appartamento nei nuovi quartieri sorti allora per ospitarli. Vi lascio immaginare quale delle due categorie sia scomparsa e quale sia rimasta (per fugare ogni dubbio, provate a cercare il costo medio di un bilocale qualsiasi a Bardonecchia sul web, oggi).

“Che tempi, seconde case agli operai”.

Già, lo pensarono anche le famiglie di ‘ndrangheta che allora facevano affari da capogiro col mattone, quando si buttarono a pesce in questo nuovo cantiere e nei relativi servizi fino a gestire mezza città.

E nel 1995 (millenovecentonovantacinque eh) il cortese e civile Piemonte vide il suo lembo più a ovest commissariato per infiltrazioni mafiose, primo comune nel Nord a potersi fregiare di questo trofeo. Tra parentesi, tutta la val di Susa è territorio di mafia e i lavori per il TAV (l’alta velocità Torino-Lione che da decenni minaccia di devastare la bassa valle) sono la preda più ghiotta.

Il Frejus si staglia alle spalle della vecchia chiesa di Borgo (appunto) Vecchio stancamente, quasi di malavoglia, abbandonato su di un versante. Le punte che chiudono il resto della conca invece sembrano lì ritte a scrutarti. Niente di paragonabile alla selvaggia, spoglia asprezza della grande catena dolomitica dell’Est, sia chiaro. I comprensori sciistici poi non reggono neanche lontanamente il confronto con quelli francesi o trentini.

Ma c’è un senso di quiete nelle pareti dolcemente scoscese e tappezzate di pini multicolori, che fa dimenticare quanto adulterato sia il territorio intorno a sé, che abbraccia e conforta e placa e rasserena. Se poi di notte si sfida il freddo dei 1.312 m.s.l.m. sdraiandosi nel buio, ci si trova sovrastati da una stellata che avrebbe bisogno di una metafora che non so fare per farvela visualizzare bene.

O forse tutto questo è falso ed è solo il mio puerile attaccamento ad un luogo fondamentale della mia infanzia a farmi parlare. Certo è che in quel posto ho conosciuto l’ingenua e purissima gioia del bambino, la cui memoria oggi stride forte con lo sguardo disincantato dell’adulto.

L’anima frontaliera è dura a morire in questa valle, come ti ricordano all’istante le tre o quattro camionette blindate della polizia perennemente parcheggiate proprio lì, a pochi metri dal primo ponticello che si attraversa dopo essere scesi dal treno. Dettagli e pensieri che sulla carta si potrebbero trascurare dato che la frontiera con la Francia in teoria non esiste più da trent’anni, quando entrò in vigore il trattato di Maastricht. Libera circolazione, moneta unica, basta con quegli obsoleti riti ottocenteschi dei passaporti timbrati e delle sbarre multicolori che fanno su e giù, si disse.

Rallentano capitali e turisti, l’Europa è una sola grande casa.

Nati con garanzie stabilite spesso prima del nostro concepimento, possiamo tirare dritto e fottercene delle camionette. Al massimo riflettere sul fatto che le famiglie dei doganieri un secolo e mezzo fa costituivano la base della popolazione di questo posto, e che magari qualche nonna conserva ancora la foto del bisnonno gendarme o carabiniere in uniforme, e che il mondo è cambiato più di quanto possiamo registrare nei nostri sempre troppo giovani cervelli. Eppure quelle camionette sono lì, e sono lì perché per qualcun altro quella frontiera ancora esiste, eccome se esiste.

La realtà violenta del confine si materializza come un cazzotto in pancia sui sentieri che si diramano poco sopra Bardonecchia, dove è già Francia. La brava famigliola in gita si avvicina ai pini che costeggiano la sterrata e trova dei cartelli bianchi recanti scritte nere (e magari fossero per Bocca di Rosa), subito nota un simbolo rosso di pericolo bene in vista.

Li appendono gli attivisti no borders, abituati a scoprirli continuamente rimossi. In italiano, francese, inglese e arabo il cartello avvisa i migranti in transito che la notte i sentieri sono pericolosi e faticosi, che la temperatura spesso diventa letale e che la neve non va mangiata né toccata a mani nude, perché è fredda.

La neve è fredda.

L’enormità di questa affermazione banalissima mi sovrasta, fatico a guardare la neve senza un moto di orrore. Migranti che non ne avevano piena contezza sono morti assiderati su quelle montagne, smarriti nei boschi e raggomitolati tra i cumuli bianchi.

Così è questo secolo disordinato e violento, più di quanto il privilegio accordatoci alla nascita tenda a farci comprendere. Mi risuona nella testa una canzone flebile, che sa di infausto presagio e insieme di lieto augurio “nasci in Angola, muori in Padania…” a ricordarmi delle infinite, assurde possibilità che la vita produce instancabile.

Così è questo secolo veloce e lento, sofisticato e brutale a un tempo.

Masse di persone si muovono in cerca di vita, e in troppi muoiono a causa della neve fredda, del mare scuro e della burocrazia fredda e spietata, cose viste magari per la prima volta. 

Così è anche lo sguardo acquoso e stanco del ragazzo nigeriano, L., che cerca nel mio le informazioni per proseguire il viaggio, manifestazione concreta di carne e sangue del fenomeno globale di cui tanto si parla(va)  sui giornali.

Siamo tornati all’inizio, alla stazione.

Chiede in un inglese zoppicante quando passa il prossimo. Quegli occhi, a metà tra la rassegnazione totale e la volontà ferrea, si agitano in un moto di stizza solo verso il suo telefono che non lo aiuta e si spegne in continuazione. La cicatrice che ha sul volto potrebbe raccontare l’indicibile, giustificare in lui una rabbia selvaggia, e invece sembra che faccia uscire ogni sua parola dall’ovatta.  All’ultimo passo fatto per mettermi di fronte al bancone del bar e chiedere informazioni sul prossimo pullman direzione Francia sento che i ricordi dell’ingenua e purissima gioia del bambino qui vissuta mi hanno definitivamente mandato a cagare, scalzati da quegli occhi.

Il barista allusivo e complice mi conferma l’orario trovato online. Alle sue spalle, i calendari dei Carabinieri oscillano minacciosi con aria di disapprovazione. L. ha freddo, è dicembre inoltrato. È il suo primo tentativo. Il pullman c’è, ma la gendarmerie pure. Ci scambiamo numeri e consigli. Confida in Dio e non si farà fermare da un posto come Bardonecchia, o Ventimiglia, o dai lockdown.

Lo saluto commosso.

Alla fine e per vie traverse ce la farà, pur venendo respinto e rimandato in Italia dalla polizia di confine almeno una volta. “I made it, my friend”. Anche qui servirebbe una metafora che non so fare, per esprimere l’impatto emotivo che ha ricevere quel messaggio Whatsapp. Emozione e rabbia, una rabbia sconfinata che monta ogni volta che rivedo le cime alpine e ripenso ai “così è, che mondo folle”.

Ho sempre avuto sotto gli occhi quella frontiera a me invisibile, fin da piccolo, trattandola come parte naturale delle cose, un fatto ovvio e scontato. Il fatto è che semplicemente non è così. Siamo noi con la nostra tranquilla acquiescenza, attivi o passivi complici del sistema di potere di cui facciamo parte, a mantenerle vive e pericolose. La prossima volta che cadrà, pensate a quanto è fredda la neve per alcuni.

all pictures by Arnaud Ele and Nadia Tarra.

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