Necessità di lusso

una tappa di Costanza Galetto.

Europa, diciannovesimo secolo.

La comparsa delle prime fabbriche determina uno spostamento in massa dei lavoratori dalle campagne alle città. La meccanizzazione progressiva che accompagna il processo di industrializzazione impone agli operai ritmi sempre più scanditi e controllati. Il tempo si sta trasformando. Non è più il tempo del contadino, forgiato dai ritmi della natura e dal susseguirsi delle stagioni; è un tempo artificiale, alla cui logica il lavoratore di fabbrica è costretto, per potersi sostentare, a sottoporsi.

L’avvento del taylorismo negli anni Ottanta del secolo non fa che rispecchiare la volontà della grande borghesia capitalista di aumentare quanto più possibile la produttività degli stabilimenti industriali, diminuendo la forza lavoro e razionalizzando la produzione. I turni di lavoro degli operai, tra cui figurano donne, uomini e bambini, ancora scarsamente protetti da quelle che sono le prime embrionali forme di legislazione sociale – hanno poco di umano; ma d’altronde, non ambiscono a essere tali, preferendo emulare gli ingranaggi delle macchine, vere padrone del tempo. 

Un tempo più veloce, dunque, quello del diciannovesimo secolo, di cui la diffusione sempre maggiore della ferrovia e del telegrafo sono tra i principali artefici; cambiamenti che travolgono come un’onda l’Europa occidentale. 

Matura come reazione l’esigenza di un tempo libero, da spendere al di fuori degli ambienti lavorativi, che permetta una pausa dalla crescente accelerazione imposta dai nuovi sistemi produttivi e dai ritmi del mercato. Il lavoratore deve poter ristorare la propria psiche e il proprio corpo per costituire una parte funzionante della macchina da lavoro.

È quindi a partire dal processo di industrializzazione che sembra delinearsi con maggior evidenza il nesso tra il benessere psicologico e fisico del lavoratore da una parte, e la qualità del suo contributo in ambiente lavorativo dall’altra; la consapevolezza che la salute del singolo sia un prerequisito essenziale perché esso continui a svolgere un ruolo attivo all’interno della comunità. 

Facciamo un salto a tempi più vicini.

La dimostrazione che a lungo andare le ricadute di una mancata attenzione al benessere psicologico si riversino sul piano economico e sociale sembra esser giunta da alcuni fenomeni recenti, per scorgere i quali la nostra tappa dell’STC World Tour dovrà oltrepassare i confini europei.

È sufficiente pensare alla “Great Resignation Era” negli Stati Uniti, e a proteste come quelle contro la cultura del 996 in Cina, un grido di denuncia ai turni massacranti degli operai del settore tecnologico, dove sono impiegati dalle nove di mattina alle nove di sera per sei giorni alla settimana. Di fronte a ritmi rigidamente scanditi e dure regolamentazioni del lavoro sotto il profilo disciplinare e organizzativo, i cui effetti si ripercuotono non solo a livello fisico ma anche psicologico – con un’interazione marcata tra le due sfere –  i giovani cinesi, oltre a scegliere la via della resistenza passiva, decidono di abbandonare il proprio lavoro.

L’attuale calo di occupazione in Cina è senza precedenti. 

Il caso americano e il caso cinese sono esemplificativi in quanto testimoni di un’acquisizione di consapevolezza del lavoratore rispetto all’importanza di considerare il proprio benessere psicologico una priorità, e di esternarsi dalla corsa alla competizione, alla freneticità, alla produttività che domina il ventunesimo secolo.

A questo processo, cui hanno concorso diversi fattori, la pandemia sembra aver agito come motore propulsore.

L’isolamento determinato dal lockdown ha in qualche modo non solo accresciuto, ma dilatato, il tempo a disposizione di quei lavoratori che non potevano, in via delle misure restrittive, recarsi in loco per effettuare la propria attività lavorativa. Questo tempo si è manifestato come un istante, appunto, dilatato, di cui ciascun individuo ha dovuto in qualche modo fare un uso personale senza cederlo – volontariamente o non – a terzi.

La cultura dell’iper-produttività nella quale siamo immersi, la FOMO alimentata dai social network, il fascino del busy bragging, la “generazione Rigby” (quella Eleanor dei Beatles, personificazione del binomio ossimorico solitudine/vicinanza). Questo sistema forsennato e agonistico ha subito un arresto temporaneo, da parte di una pandemia che ci ha consegnato, come un testimone, il nostro tempo, raccomandandoci di esserne padroni. 

A lungo andare, i ritmi frenetici della vita quotidiana hanno assunto le vesti di un ricordo lontano, temporalmente e concettualmente; abbiamo riscoperto noi stessi, che in quella cultura, della quale siamo artefici, non facciamo altro che galleggiare, cercando di non affondare. 

L’importanza del benessere psico-fisico è diventata per molti individui una priorità, al raggiungimento della cui condizione i ritmi di lavoro pre-pandemici costituivano un impedimento.

Allo stesso modo, anche alcuni Paesi sembrano aver compreso questo nesso inscindibile tra il benessere del singolo e il corretto funzionamento della comunità, adottando delle politiche volte a delineare una linea di demarcazione sempre più netta tra la sfera individuale e quella lavorativa. La garanzia del diritto alla disconnessione, è, per esempio, una delle soluzioni adottate da alcuni Paesi europei (Belgio, Francia, Italia e Spagna), efficace soprattutto in un contesto come quello dell’era digitale, accelerato nel periodo post-pandemico, in cui il remote working – quello che gli italiani chiamano con grande inventiva smart-working – ha conosciuto livelli di diffusione senza precedenti.

Nella sola UE, il 37 per cento dei lavoratori ha cominciato a lavorare da casa durante il lockdown.

Oltre alle soluzioni appena evocate, per quanto riguarda il contesto extra-europeo, singolare è il caso della Cina, la quale, già nel lontano 2016, aveva introdotto dei sistemi che permettessero di controllare lo stato emotivo degli operai nell’ambiente di lavoro, monitorando le loro esigenze al fine di ottimizzare il loro tempo. Si tratta di caschi indossati dai lavoratori in alcuni stabilimenti, che grazie a sistemi di intelligenza artificiale permettono di monitorare le loro onde cerebrali, percependo i loro stati emotivi. 

Negli Stati Uniti, la stessa esigenza di massimizzare la produttività puntando sullo status dei lavoratori ha portato alla comparsa, nelle aziende, della figura del Chief Happiness Officer, incaricato di implementare politiche che mirino a incrementare la salute psicologica dei lavoratori e massimizzare così il profitto dell’azienda. 

Dopo aver analizzato come il tema della salute mentale sia stato affrontato a livello di politiche in ambienti lavorativi, occorre ragionare a livello individuale. 

È sempre possibile scegliere di dare priorità a se stessi?

La risposta sembra essere negativa. Lungi dall’essere una condizione accessibile ai più, rimane appannaggio di coloro che hanno sufficienti risorse per assentarsi, anche per poco tempo, dalle proprie attività.

Inoltre, spesso, coloro che non possono permettersi tale privilegio, si trovano costretti a dover fare i conti con le sue conseguenze, ossia sui danni della sindrome da burn out, dello stress, dell’ansia, e così via. Stati di malessere che, però, non tutti, di nuovo, possono affrontare con il sostegno di esterni.

Ed ecco che veniamo al secondo punto.

La terapia è un lusso? Curarsi, appannaggio dei benestanti? 

È certo: la crisi da Covid-19 ha aumentato il numero di coloro che hanno riscontrato stati di ansia, attacchi di panico, disturbi del sonno e altre forme con cui il malessere psicologico si può manifestare. Nonostante queste condizioni siano sempre esistite, anche se raramente discusse, è stato proprio l’isolamento cui il mondo intero è stato costretto – in misura maggiore o minore a seconda delle zone – ad aver determinato un aumento netto nell’insorgenza di questi fenomeni, riscontrato non solo tra la popolazione italiana, ma anche a livello europeo e mondiale; non solo tra i lavoratori, ma tra ampie fasce della popolazione.

Anche nel campo psicologico la pandemia non ha tardato ad accentuare le disuguaglianze già esistenti, contribuendo a rendere più vulnerabili coloro le cui condizioni economiche non permettevano di ricorrere alle cure che avrebbero voluto sostenere.

La salute mentale è un lusso?

In Italia, lo è. A renderlo tale contribuiscono i costi elevati e i numeri ancora troppo limitati di personale esperto che possa assicurare a tutti delle cure adeguate, che fanno sì che solo in pochi riescano ad accedere al sostegno di cui avrebbero necessità. C’è stato un barlume di speranza che le cose potessero cambiare, spento però quando il bonus psicologo (50 milioni di euro suddivisi in un bonus “avviamento” da 15 milioni e un bonus “sostegno” da 35) è stato escluso dalla legge di bilancio per il 2022.  

Il bonus avrebbe reso l’Italia più in linea con altri paesi europei, tra i quali la Francia, dove, a gennaio 2021, è stato introdotto il chèque psy, un buono che consente l’accesso a un ciclo di tre sedute da 45 minuti con uno psicologo/psicoterapeuta/psichiatra a tutti gli studenti francesi, che può essere rinnovato una volta per poter accedere a un altro ciclo.

Ma il sostegno a quanti soffrono di disturbi psicologici non deve certo limitarsi allo stanziamento di denaro. Servono campagne di informazione che contribuiscano a diffondere consapevolezza sui temi del benessere psicologico; incontri nelle scuole, per i più piccoli e i più grandi; occorre normalizzare il tema della salute mentale, che, se minacciata, può costituire un impedimento per il singolo che ne è affetto – costituendo un limite al corretto svolgimento delle funzioni quotidiane e al raggiungimento di una condizione di benessere psico-fisico  –  e per l’intera comunità di cui il singolo è parte. 

Non c’è dubbio che tale normalizzazione non debba avvenire esclusivamente facendo convergere l’attenzione sulle cifre in continua crescita delle vittime di malesseri psicologici – vedi le principali testate giornalistiche e il sensazionalismo al quale, anche riguardo a questo tema, non riescono a sottrarsi.

Non serve allarmismo, ma consapevolezza, su più livelli: coscienza dell’elevato tasso di incidenza dei disturbi psicologici tra la popolazione, soprattutto come effetto post-pandemico; sull’importanza del raggiungimento di un benessere psico-fisico per ogni individuo; sulla necessità di assicurare a quanti ne necessitano l’accesso a cure e terapie per accompagnarli nel raggiungimento di questo obiettivo.

Bisogna avere cura della sanità mentale della popolazione, nella sua interezza.

Non sono solo i lavoratori, né tanto meno solo la next generation coloro di cui occorre occuparsi. La sanità non deve conoscere distinzioni, di classe sociale, di genere, di età e quant’altro; altrimenti è, per definizione, un privilegio. E tale è destinato a rimanere fino al momento in cui tutti saranno posti nelle medesime condizioni per potervi accedere.

Solo allora potrà essere chiamato diritto.

Eppure questo, per ora, sembra un traguardo ideale.

Note da una lettrice

Caro Super Tramps Club,

Sembra quasi sia in corso una faida silente e invisibile nella nostra società, che appare come lacerata tra i miscredenti, da una parte, e i fedeli, dall’altra. Il tema dibattuto? Il benessere psicologico. 

Fino a che non è il tuo di benessere – mi rivolgo a te, potenziale lettore – a essere turbato, c’è una probabilità maggiore che tu rientri nella prima di tali categorie. Fino a che la tua condizione è quella privilegiata, qualunque termine che rimandi al campo semantico dei disturbi psicologici rimane solo una chiacchiera, un lamento, una scusa. Perché?

Inoltre, caro autore, nell’articolo hai parlato di benessere psicologico, senza mai specificare che cosa significhi; o meglio, che cosa significhi il suo contrario. Le pagine di giornale e i media si servono di termini come ansia, stress, attacchi di panico. Mi chiedo: quanta consapevolezza si cela dietro all’impiego di espressioni così impersonali? Forse occorre spiegare, e non solo parlare. Chiarificare che può accadere di non riuscire a respirare, di sentire il corpo tremare, voler gridare, ma tacere; sentire il cuore a mille e pregare che smetta; e molte altre manifestazioni soggettive. 

Questo è il lato nascosto della psiche, che non si rivela a tutti; ed è per questo che parliamo di ansia, di stress, di burn out, di  panico. Perché, in fondo, anche chi ignora, chi non crede, chi a volte deride, possa menzionarli, così, con leggerezza, mentre sorseggia un caffè e intanto si interroga se esistano davvero.

Eleanor

all pictures by Andrew Waits.

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