Dune di cenere

una tappa di Martina Lomen.

Una sera, dopo un’eternamente buia giornata di novembre, decisi di farla finita con queste scuse di comodità.

Forse babbo aveva anche ragione: prima di viaggiare con lo scopo di salvare e di salvarmi, avrei dovuto studiare, sì, per rendere più utili le mie energie e attenzioni, per non far risultare il mio aiuto agli altri mero sostegno fisico, impiegando invece qualche capacità appresa all’università, per cambiare davvero la situazione.

Eppure mi ero stufata di tutto ciò, ero stanca, mi sentivo futile e vuota; la mia volontà era stata rimandata, a un futuro, chissà se ipotetico, perché dai, diciamocelo, sapevamo tutti che babbo diceva così nella speranza che io cambiassi la proiezione della mia esistenza.

Ma no, dopo anni stava ancora lì.

Ricorrente mi tornava alla mente giorno dopo giorno, mi faceva vivere una vita che non volevo, seppur interessante; e quindi, decisi di prenotare un volo: un volo per la Cisgiordania, un volo per fuggire dalle parole e aspettative di babbo, fuggire da quella Me che aveva deciso di assecondarlo, per comodità, o per timore.

Ed ecco che, dopo un paio di giorni e numerose litigate con familiari e amici che poco sostenevano le mie intenzioni, misi piede nella terra dove tutto ciò in cui (fino a qualche anno fa) credevo era sorto, dove ebbero origine secoli e millenni di una leggenda o forse storia, che divenne religione, alla quale molti uomini e molte donne, con esistenze totalmente diverse seppur accomunabili alla mia, dedicarono le proprie vite. 

Fui travolta, in un istante, da un brivido di emozioni miste e contrastanti: mi ritrovai indubbiamente agitata, orgogliosa per aver preso la mia vita in mano eppure, forse, davvero avevo paura. L’aria era pesante e rarefatta, attorno a me volti distrutti, molti che partivano, pochi che tornavano; percepivo la tensione a ogni inspiro, a ogni boccata d’aria che facevo mia, ma che si trovava in una terra che giaceva in un limbo d’appartenenza, che la stava distruggendo giorno dopo giorno, ora dopo ora. 

M’incamminai, presi qualche contatto, un giornale tradotto e mi misi a leggere il piano che mi ero programmata per i prossimi giorni. La prima tappa era il villaggio di Nabi Salih, di appena 600 abitanti, che non so per quale mio scervellamento irricordabile era finito in cima alla mia lista di luoghi di cui fare esperienza, assaporandoli lentamente nella loro quotidianità.

Appena arrivai fui accolta da un clima di stravolgimento, di terrore misto alla voglia di avere indietro una normalità che troppo duramente fu strappata via. Mentre la mia mente tentava di immaginare la cruda realtà che dovevano affrontare gli abitanti quotidianamente, il mio sguardo si perdeva in ogni particolare di questo villaggio, così piccolo ma che conteneva storie così grandi. Si soffermò su dei fili, ai quali stavano appese masse scure, di un colore metallizzato, masse che però non riuscivo a identificare; mi avvicinai: erano bombole di gas. Improvvisamente presa dallo sconforto realizzai che avevano forse ucciso qualcuno: bambini, donne, anziani, chissà, tutto svanito in un baleno, lasciando come traccia della propria esistenza solo cenere e ricordi malinconici nei cuori e nelle menti degli abitanti di Nabi Salih.

Mi sedetti, volevo stare lì a fissare quelle bombole, che qualche uomo aveva costruito per poi venderle a un altro che decise a sua volta di scagliarle, una dopo l’altra, col fine di spaventare, col fine di uccidere. Aspettavo qualcuno che mi spiegasse come sia stato possibile che la storia dell’umanità non sia ancora riuscita ad apprendere da sé stessa, come sia possibile una violenza così cruda, che non dimentica e non perdona. Intanto, sentivo crescere in me una lacerazione di quella che era la fiducia nell’essere umano, che per anni avevo riposto in me, nel mio vicino, nel mio avversario a scherma; eppure niente, me ne stavo ancora seduta a cercare risposte. Mi tornò alla mente quella poesia di Quasimodo che avevo studiato al liceo, quando ancora ero ingenuamente incredula. Recitai quindi, nella mia mente e nel mio animo, i versi di “Uomo del mio tempo”:

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Mi continuai a domandare come fosse ancora possibile che dopo tutta questa nostra “evoluzione”, la natura umana sia ancora caratterizzata dal marcio egoismo presente sin dall’antichità: come può esso permanere nonostante l’uomo abbia visto coi suoi occhi e provato sulla propria pelle quanta sofferenza e quanta miseria comporta la guerra?

Il mio sguardo, ancora curioso seppur timoroso di scorgere altri segni di brutalità, vide in lontananza la figura di una donna, una giovane donna, che irrompeva in un silenzio forzato, dove però tutti avrebbero voluto gridare, gridare che era troppo, che era l’ora di finirla, che era l’ora di tornare a vivere. 

Si avvicinò a me, che giacevo ancora seduta immobile e sconvolta.

Aveva un’aria di leggerezza, di vita in mezzo a tutta quella morte. Si presentò, si chiamava Janna Jihad, جنى تميمي; era così giovane, pensai, eppure aveva il peso di troppi anni di preoccupazioni e sofferenze scritto sul viso dolce e bello. Mi parlava, con quel suo accento, così nuovo alle mie orecchie, di un inglese imparato nel misero tempo che non dedicava a raccontare cosa accade nella sua terra al mondo intero, o forse a chi del mondo importa ancora, mi disse con una disperazione velata.

Appena ci conoscevamo e già mi sembrava che mi stesse gettando addosso, seppur con delicatezza, quelle sue paure, quelle sue preoccupazioni che non la lasciavano dormire la notte, e intanto mi diceva che avevo gli occhi grandi e curiosi, che le piacevo perché non si vedono molti occidentali in quelle terre, le quali pare abbiano perso valore a causa della violenza cruda e spietata. Provai a raccontarle un po’ di me, ma come fu difficile! Nulla mi sembrava degno delle sue attenzioni, del suo interesse; eppure mi ascoltava.

Mi invitò a casa sua, per pranzare, vista l’ora e probabilmente anche l’appetito che avevo scritto in faccia, e per mostrarmi alcuni dei suoi video, delle sue testimonianze e delle sue foto, così da prepararmi a quella che purtroppo era la quotidianità in Palestina, più in generale. Fui accolta da una nuvola di aromi e colori da me ancora inesplorati, e, successivamente da un “Ahlan wa sahlan” pronunciato in coro dalla sua famiglia, che mi accolse nella sua terra, nella sua casa e nella sua cucina, centro nevralgico della condivisione.

Dopo un po’ di presentazioni e brevi ritratti intimi, ci sedemmo a tavola, davanti al piatto palestinese per eccellenza, il Musakhan, agnello con spezie al mio olfatto nuove, servito con il Taboon, pane appena sfornato il cui aroma riempiva la stanza. Durante il pranzo mi parve di riuscire a creare profili di paesaggi, immagini di mercati affollati, stralci di vita di qualche abitante della zona, solo grazie ai loro racconti. Mi sentii inondata da quell’esperienza che tanto ricercavo, quel sentimento di riconoscimento che porta con sé empatia; percepivo quella mia voglia di conoscenza finalmente in parte soddisfatta, eppure era una conoscenza spesso sofferente. 

Janna mi disse che voleva mostrarmi di più, farmi capire le radici della sua scelta di fare giornalismo, così si alzò per andare a prendere i suoi report in camera sua; appena scostò la sedia per alzarsi, notai che sua madre si nascondeva il volto, con la scusa di voler sparecchiare il tavolo lasciò la stanza. Successivamente udii singhiozzi provenire dalla cucina. Mi avvicinai, abbracciai questa sconosciuta, che tanto mi aveva donato con le sue parole e la sua gentilezza, che ora stava in lacrime a piangere una figlia così giovane che oggi c’è, ma domani chissà.

La donna era stravolta, emanava terrore da ogni segno sul viso, da ogni espressione, da ogni sguardo.

Temeva l’arrivo del giorno in cui Janna non sarebbe più tornata a portare luce in quel villaggio tanto buio, temeva che un giorno i soldati che prendevano la loro terra avrebbero preso anche lei, temeva che Nabi Salih sarebbe diventato uno dei tanti centri abitati trasformatosi in dune di cenere, e tutti loro granelli di esse. Mi raccontò che Janna riceve giorno dopo giorno minacce di morte e intimidazioni a causa del suo nobile lavoro di difesa di quei diritti umani, che a loro, in quanto umani, sono stati negati senza alcuna pietà, e vengono tutt’ora negati quando i soldati israeliani uccidono bambini, arrestano donne e feriscono uomini nei territori palestinesi occupati.  

Mi disse che voleva che la sua piccola avesse un’adolescenza normale, che potesse assaporare la libertà, la giustizia, la pace e l’uguaglianza, senza dover rischiare la vita ogni volta che varcava la soglia di casa, senza dover opporsi al trattamento oppressivo e spesso mortale che l’esercito israeliano ha nei confronti dei palestinesi.

Questa storia, queste vite mi avevano rapito.

Mentre ascoltavo ogni parola pronunciava la donna, mentre osservavo ogni sua espressione, accresceva in me la convinzione che il mio tour poteva aspettare, che se volevo vivere interamente quella terra non potevo non fermarmi di fronte a questo spettacolo poco lieto ma profondo: sarei restata lì, con loro, a vivere come Janna, come sua madre e come tutti i palestinesi, almeno per un po’.

Di fronte a questa disperazione non sapevo, però, come reagire, non avevo mai fatto esperienza di nulla di lontanamente simile a ciò e mi sentivo così colpevole della mia infelicità nonostante il radicato agio in cui ho sempre vissuto. Continuai a fare mia la sua sofferenza, la sofferenza di tutti i palestinesi, di tutti coloro che sono costretti a lottare e fuggire per salvarsi, per salvare il ricordo di una cultura, una religione, una patria, un’identità.

Mi vennero in mente le parole scritte in quella lettera che nonna mi leggeva ogni volta che facevo i capricci a casa, quella lettera scritta da mio nonno, partigiano, che lottò in nome di una resistenza diversa da quella di Janna, ma che ugualmente significa restare liberi e pretendere una libertà comune, per tutti. Una libertà per chi muore in mare, per chi è costretto a dimenticare le proprie origini pur di tentare di essere integrato in una società differente col fine di salvarsi, libertà per chi viene ingiustamente arrestato, deportato, torturato sulla base di un’appartenenza etnica, religiosa o culturale, libertà per chi viene privato della propria identità, delle proprie radici, delle proprie scelte, delle proprie libertà.

STCworld Facts

Janna Jihad all’età di 13 anni è stata riconosciuta come una delle più giovani giornaliste al mondo; Janna ha documentato il trattamento oppressivo e spesso mortale dell’esercito israeliano nei confronti dei palestinesi.

Tra gennaio e giugno 2021, le forze israeliane hanno ucciso almeno 73 bambini nei Territori palestinesi occupati.

Ogni anno Israele processa tra 500 e 700 bambini palestinesi nei tribunali militari.

Questi tribunali non rispettano gli standard internazionali sul giusto processo. Anche se Israele ha firmato la Convenzione sui diritti dell’infanzia, i bambini palestinesi in Cisgiordania sono rimasti esclusi da tali protezioni. 

all pictures by Rachel Seidu.

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