Bar Universo

un racconto di Ezio Azzollini,
editing di Fabrizio Pelli.

Il Bar Universo è alla fine della città, dopo non c’è più nulla. Ci vanno operai, contadini, muti e fumatori; quando è brutto tempo, è il riparo di Vito.

«Qui c’è tutte le fotografie di buchi neri che vuoi, vedi che ti riprendi», grida Mauro dei tabacchi, ma Vito non sente. Una volta ci siamo già stati lì dietro, è un bluff: sembrerebbero lì dagli anni novanta, stupefacenti ghiandole mammarie e resto deludente, ciuffi non potati e rossetti troppo carichi. 

«Hanno fotografato un buco nero», ripete quando mi vede, «Non è davvero una fotografia. È come una fotografia ma è qualcosa di diverso».

Vito non è messo proprio male, il fiato gli puzza di galassie ma chiunque può dire di averlo visto peggio. Risate e tragedia sfumano le une dentro l’altra in un momento, la perfezione è non accorgersene neanche. Vito l’ha studiato e poi l’ha dimenticato, e comunque ha sempre sostenuto che la perfezione è sopravvalutata.

«Sei magro. Stai mangiando?»
«So cucinare. Ma non mi va molto».
«Sei a piedi?»
«Sono senza macchina da una settimana. Non ridere. Non trovo più la patente».
«Non rido».

Sta inclinato contro la parete a guardarmi con gli occhi annacquati.

È stato un grande festeggiatore di feste altrui e un pessimo organizzatore delle proprie, poi ha smesso di festeggiare e basta.

Sull’A14 fummo costretti ad accostare, valutò che non sempre c’è un posto per accostare, gli dissi di respirare a fondo. Mi disse scusa, ti ho messo in imbarazzo, io ho mentito e gli ho detto ma quale imbarazzo.

Sono in imbarazzo anche adesso, nel bar così pieno che pare tutti si siano dati appuntamento per noi, a ragionare con un palo storto contro il muro. Dopo l’attacco di panico sull’A14 non ci siamo visti così spesso.

Non ci siamo visti per niente.

«Non esiste un intervento che non fa male, il dolore è nella natura delle cose», spiega dalla stanza delle carte il dottore, sta al telefono con uno che deve andare sotto i ferri. Non sa usare il volume e ha messo il vivavoce: non è tanto per l’operazione, dice quello, è la paura di sentire male. Il dottore ha un trattamento bizzarro dei dati sensibili. Il bar ha un trattamento standard degli uomini sensibili.

«Come state, non ci vediamo da quanto?», mi chiede Vito, «Tania? È sempre molto bella?»

«Sì, è sempre bella», capisco che è davvero ubriaco, strano com’è che voglia avventurarsi su un discorso così scivoloso, sapere se con la pancia è meno bella, se è diventata più bella, o è solo ugualmente bella.

Il Bar Universo è equidistante da casa mia a casa sua. È come trovarsi a metà strada, in quegli appuntamenti da ragazzi pieni di sole e pieni di tempo.

«Non è stata una brutta vita, ha avuto il difetto di non durare. È stato come quella frase che ti fece ridere, in gita del quinto ad Agrigento: siamo poveri ma belli. Ti ha fatto ridere tutto il tempo. Cos’era che ti faceva ridere?»
«Non me lo ricordo».

Comprammo due pendenti d’avorio uguali vicino alla Valle dei Templi, due elefantini indiani al collo. Prima io persi il mio, poi lui perse il suo, o il contrario. «Era il modo, forse».

«Provo spesso a ricordare come eravamo da ragazzi, non ci riesco. A te riesce? Ogni adolescente ha paura di niente, lo spaventa a morte pensare a come andrà. Alla fine solo una piccolissima parte ha ragione ad avere paura. E io sono in quella parte. L’avresti mai detto?»

Non ho detto niente ma non è vero che non mi ricordo come eravamo. Mi ricordo quando era anche più magro di così: guardava già le universitarie che studiavano sui gradini e si mangiavano le unghie, aveva pensieri grandi e credeva che avrebbe avuto quello che pensava. A essere finito a quarant’anni uno dovrebbe sentirsi ridicolo e non prendersi sul serio. C’è un modo maldestro anche nell’essere finiti e Vito lo ha trovato.

«Ora passa, hai soltanto esagerato. Ti ha detto che non torna?»
«Sono settimane che non le telefono. Ma sì, ha detto che non torna».

Sulla porta divisoria dei settanta metri quadri del Bar Universo c’è un foglio A3 attaccato con il nastro adesivo, e sopra l’A3 c’è scritto: LA SALA È RISERVATA A CLIENTI DEL BAR E GIOCATORI. I PERDITEMPO SONO PREGATI DI SVERNARE ALTROVE. Il foglio e quella parola, svenare, ci sono tutto l’anno, anche quando non è inverno e fa ridere l’idea di uno che vuole aspettare che passi l’inverno ai trentotto gradi d’agosto. La regola del gioco probabilmente è che si debba essere tutti perditempo, adeguati alla temperatura del mondo solo metà dell’anno.

«Ti faccio vedere, hanno fotografato un buco nero», muove le dita imprecise sul display sporco e crepato per il lungo, chiude due inserzioni, la prima è della migliore assicurazione oggi per te a un costo imbattibile, la seconda è una raccolta per la siccità che ha colpito duro in Centro Africa.

«Vedi questo cerchio scuro dentro questa aureola? È l’orizzonte degli eventi, è il punto da cui la luce non riesce più a scappare».
«Non so se un astrofisico lo direbbe così».
«Non è bellissimo orizzonte degli eventi? Sembra un momento che dopo non può accadere più nulla».

«Non credo proprio che un astrofisico lo direbbe così.»

Il Bar Universo ha due aperture, una per chi entra, una per uscire dopo i tabacchi. Dovrebbe essere così ma non è mai stato tassativo, e continua a non essere tassativo. Dai tabacchi e dall’ingresso, chi entra incrocia chi sta uscendo e viceversa e andrà sempre così, caos fino alla fine dei tempi.

«Vuoi prendere un po’ d’aria? Ti farà bene». Vito asseconda docile. La logorrea delle parole è finita e sta per cominciare il rapido scivolare verso la vergogna, il veleno da cacciare con i fluidi corporei, in qualche modo.
«Ci sono io, attaccati. Collabora un poco».

Si slega dalla presa appena fuori, mi prende la faccia tra le mani e mi dà un bacio umido e sicuro sulla guancia, odorerà fino a casa di lui e di quello che lo ammazza.
«A finire c’è qualcosa di patologico nella spietatezza. C’è qualcosa di patologico anche nella non spietatezza. Forse a finire c’è qualcosa di patologico e basta».

La pioggia ha lavato lo sporco e lucidato la provinciale, si allunga dritta e senza incroci a perdersi nella mezzanotte. Ha il buio, il silenzio e l’aria fredda che punge le ossa, e fa tutto quello che deve fare la mezzanotte. Stanotte raccolgono il vetro, non ricordo mai se ne abbiamo fatto abbastanza o se non vale la pena, è solo da dare un occhio che non si metta a puzzare.

tutte le fotografie di Erica Bardi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *