Ozono

un racconto di Alessandro Busi,
editing di Giulio Frangioni
(non ha fatto niente, solo aggiunto un punto).

Certo, è vero che decidono di andare fuori a cena nonostante tutto; è vero che non devono chiamare la baby sitter; è vero che lei non vuole, mentre lui e la dottoressa insistono che è un’occasione per prendersi cura della coppia; è vero che lei si fa i peli delle gambe e dell’inguine dopo tutti i mesi che sono passati; è vero che è il loro diciottesimo anniversario di matrimonio, ventiduesimo da quando si conobbero fuori dal cinema comunale, proiezione delle venti e trenta, film: Harry Potter e il calice di fuoco; è vero, a proposito di calici, che ne riempiono e svuotano tre ciascuno; è vero che ordinano i piatti meno costosi e più sostanziosi, che il vino è quello della casa; è vero che brindano e, prima di sorridersi, hanno un frammento di respiro di troppo; è vero che il cameriere chiede se vogliono il dolce e loro dicono che ci devono pensare qualche minuto; è vero che lui le accarezza la pelle screpolata fra le nocche di indice e medio della mano destra, anche se lei è distante; è vero che non è sempre distante, a tratti, non tratti lunghi, piuttosto sporadici frammenti di oblio, interrotti da un trillo.

«Cosa?»
«Ci sarebbe una corsa prenotata. Dalla zona industriale all’ospedale. Quarantacinque euro.»
«E il dolce?»
«Puoi prenderlo.»
Lei toglie la mano.

«Mi vorresti lasciare qui da sola?»

La cliente si siede sul sedile posteriore. Non chiede della donna seduta sul sedile del passeggero; non protesta che voleva un notturno tassista solitario da film.
«Ospedale?»

Annuisce.

La zona industriale è un reticolato di vie geografiche, una inedita pangea in cui Stati Uniti e Repubblica Ceca si intersecano perpendicolari, all’angolo con il capannone China.

Marito e moglie non parlano, nemmeno la cliente. Solo il tizio dell’autoradio e la voce del navigatore: il primo dice che sta arrivando il vero inverno, che è prevista una tempesta di neve per il giorno seguente; l’altra dice di prendere corso Cipro, corso Australia e poi l’uscita dodici centro-ospedale.

Mentre il tassista mette la freccia e si sposta in prima corsia, la cliente chiude gli occhi, inspira e sposta la mano. È incredibile come il dolore sappia scomparire, ridursi, sommergersi e poi ritornare uguale all’inizio. Il dolore non muore, pare, si nasconde. Alla cliente scappa un vagito nonostante sia un’adulta fatta e finita e giunonica. Marito e moglie puntano gli occhi nello specchietto retrovisore centrale e, al ritmo dei lampioni bianchi, vedono la mano insanguinata, l’espressione tesa, i denti spremuti uno contro l’altro in un ghigno nervoso che dice al proprio corpo di tenere duro, che manca poco, che sta per risolversi tutto bene, tutto per il meglio.

Il tassista dice: «Oh.»
La moglie dice: «Ecco.»
La cliente ringhia: «Ospedale. Ospedale! Prego.»

Marito e moglie si guardano. Non è la prima volta che in quell’abitacolo ci finisce del sangue, è vero. Come è vero che l’altra volta la moglie era seduta dietro. Come è vero che l’altra volta era giorno, c’era il sole bello di fine estate, quello che piace ai bambini che non stanno per morire. Come è vero che l’altra volta i tassista saettava a zig zag nel traffico e suonava il clacson e gli altri erano tutti idioti, nemici, mostri.

«A me fanno schifo questi soldi.»
«Li abbiamo guadagnati one…»
«Ma no, mi fa schifo toccarli! Magari ci ha lasciato dello schifo schifoso.»

Dopo quel giorno di settembre, lui portò a pulire il taxi in un posto che faceva, per dieci euro in più, un’igienizzazione all’ozono. È vero che era sua figlia; è vero che lui se li sarebbe mangiati quei sedili sporchi dei suoi liquidi, se fosse servito a riportarla in vita, ma non era figlia dei potenziali e futuri clienti.

Per esempio, l’uomo che caricano nonostante si siano detti di andare dritti a casa. A lui non dicono né del sangue ben ripulito di loro figlia, né delle possibili macchie lasciate dalla cliente che lo ha preceduto. È vero che lui potrebbe ritrovarsi i vestiti sporchi; è vero che potrebbe maledirli; è vero che magari non ha un ricambio, ma allora cosa c’è dentro al trolley se non dei vestiti? E poi, è anche vero che nemmeno le pensano tutte queste eventualità, nemmeno controllano se il sedile è macchiato; l’importante, dice la moglie ai propri pensieri quando sente il trillo di una nuova prenotazione, è che non torniamo a casa.

Dopo aver lasciato il cliente, dopo che anche lui paga, dopo che il marito aziona i tergicristalli per cancellare dal vetro i primi fiocchi, la moglie non dice: Sai mica se esiste un’igienizzazione all’ozono per la memoria?

Dice: «Ci fermiamo qui? Così cambiamo questi soldi schifosi.»
Non si riferisce ai soldi lasciati dal secondo cliente, quelli sembrano perfino stirati, ma a quelli di quell’altra.

«Il dolce?»

Il marito, nonostante il parcheggio sia mezzo libero, lascia il taxi a lato strada. Lui sa il perché, lei non chiede. Guarda a destra e a sinistra e, presa per mano la moglie, accenna una corsa verso il bar.

tutte le fotografie di Gaia Credentino.

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