Imparare a scrivere

un racconto di Julia Kerninon,
traduzione dal francese di Luca Bondioli,
editing di Fabrizio Pelli.

Domenica scorsa il mio primo figlio ha compiuto cinque anni.

Mi fa pensare: è l’età da cui comincio ad avere ricordi della mia infanzia, senz’altro perché è l’età in cui ho cominciato a scrivere. Ho qualche immagine degli anni precedenti – tulipani nel giardino visti da un abbaino, piedi che non toccano terra seduta su una sedia, pesca alle paperelle, cappotto leopardato abbinato a quello di mia madre – ma è a partire dai cinque anni che mi vedo veramente, che ho la sensazione di essere stata una persona, e certo penso che sia legato all’avvenimento più importante di quell’anno per me: mia madre che mi regala la sua macchina da scrivere.

Dei miei due figli è lui, il primo, che mi assomiglia di più fisicamente – in alcune immagini è quasi impossibile vedere la differenza. Ha i capelli leggermente più chiari dei miei ma, per il resto, è il mio ritratto sputato. Eppure, dentro, è una persona molto diversa da me, e questo mi riempie di gratitudine per l’universo, quando ci penso.

Credo che abbia imparato da suo padre una grazia sociale che a me è sempre mancata, un gusto per gli altri, e anche un rapporto col suo corpo, un’audacia da piccolo scoiattolo avventuroso, che mi lascia a bocca aperta quando lo guardo arrampicarsi in alto in alto sugli alberi o saltare dal suo letto a soppalco o mantenere l’equilibrio su rocce muschiose. Ha dei grossi sconforti ma solo quando è stanco, nel suo stato normale è di una resilienza non comune, si consola in fretta, è pieno di energia vitale, si risolleva senza particolari difficoltà.

Chiaramente non ha ereditato i miei sbalzi d’umore, le mie montagne russe, mi sembra che gestisca meglio di me l’intensità delle sue emozioni.

Appena nato era un essere estremamente misterioso, un neonato che girava sempre la testa all’esterno quando lo tenevamo in braccio, che voleva sempre andarsene, svincolarsi e, siccome era il primo, mi sembrava normale, ma poi ho avuto un secondo figlio, orsetto accoccolato contro la mia pelle, che mi ha permesso di vedere meglio i contorni del primo.

È molto autonomo, basta a sé stesso, in un certo modo, sembra sapere chi sia, senza aver bisogno per questo della profonda solitudine che è il solo ambiente nel quale io respiro davvero. Col tempo, o con l’esempio di suo fratello, è diventato più tenero, sa chiedere il contatto, mi accarezza i piedi e i capelli come ha visto fare suo padre.

Dalla fine delle ultime vacanze estive ha lasciato la camera che condivideva con suo fratello per sistemarsi nel mio studio, dove dorme sul letto singolo, dipinto di verde, che è stato mio per tutta l’infanzia.

La sera, si siede lì, con la coperta a pezze cucita per me da mia madre molto prima che a mia volta fossi madre, accende una lucina, e legge con passione – scruta le pagine, una dopo l’altra, e suppongo che come molti bambini scalpiti dalla voglia di riuscire presto a decifrare le parole scritte, e non solo recitarle a memoria. Non avrei mai pensato di condividere lo studio con mio figlio, ma dopotutto ho spesso temuto che queste due cose – uno studio e dei figli – sarebbero potute restare fuori dalla mia portata.

Di giorno è il posto in cui scrivo, la notte è suo.

Mi sono chiesta se dovessi fargli più posto, lasciargli completamente la stanza, ma penso che non bisogna dare alle persone qualcosa che non hanno avuto il tempo di desiderare, e questo è vero anche per i bambini.

E dopo tutto, in un certo senso gli concedo quello che ho di più prezioso, condivido questo spazio con lui invece di voler a tutti i costi delimitarlo per separarci. So poche cose su di me ma questo lo so: non sono una madre molto effusiva, sono una madre nascosta nei libri, e allora al mattino scrivo nella piccola stanza ancora piena del suo sonno pensando che sia un buon modo di essere insieme.

Eppure di recente ho capito che lui non aveva colto esattamente cosa io faccia per vivere (suo fratello pensa che io non lavori perché resto a casa, probabilmente a giocare col pongo). L’anno prossimo, alle elementari, imparerà a scrivere, allora dice che scriverà dei libri come faccio io, perché per lui è questo che vuol dire scrivere. Non lo correggo – in cinque anni ho avuto il tempo di imparare che ha spesso ragione.

Non vedo l’ora.

tutte le fotografie di Calidoscopik.

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