Vestigiale

un racconto di Simone Giraudi,
editing di Anna Chiara Bassan.

Le ultime parole del ritornello di A Team mi scivolano fuori dalle labbra accompagnate dal rollio delle ruote del passeggino sul sentiero coperto di aghi di pino scoloriti. Canticchio a voce sufficientemente bassa per poter conciliare il sonno a Viola, ma anche abbastanza alta da permettere a chiunque mi passi vicino di riconoscere le parole di Ed Sheeran. Mi piace aver scelto, come ninna nanna per mia figlia, una canzone pop che parla di una prostituta vicina all’overdose.

Mi conferisce un’aria da “padre millennial”, anche se a volte vorrei che qualcuno mi rassicurasse sulla cosa.

Il sentiero della pineta costeggia il muretto che segna il confine della proprietà privata di un albergo gigantesco. Oltre l’ostacolo di pietra e cemento s’intravede una piscina privata. Intorno a me centinaia di persone si muovono nella parte libera di Borik Beach, affittando a quattro euro per l’intera giornata vecchie sdraio di plastica bianca.

Vado avanti e indietro ormai da una decina di minuti, cercando di farla addormentare. So di potercela fare, con un po’ di pazienza, una risorsa di cui solitamente difetto, ma che l’essere in ferie aiuta a ricaricare con una certa rapidità.

Mentre cammino cambio leggermente il tono della voce, in corrispondenza del bridge che introduce alla parte conclusiva della canzone. Viola mugugna la litania che di solito precede l’addormentamento. Stretta nel nuovo costumino verde acqua è sospesa all’interno della struttura ergonomica del passeggino con una mano grassoccia sulla pancia, mentre con l’altra si martoria l’orecchio sinistro (altro segno di stanchezza inequivocabile).

Ha i piedi poggiati sulla sbarra removibile del passeggino.

Avrei voglia di ricavarmi uno spazietto vicino a lei, perché per venire qui dal centro storico di Zara abbiamo scarpinato per oltre tre chilometri. Una follia, ma, dopo aver convinto Carla evitare la giornata in battello per le isole Kornati, non ho potuto scamparla. Ne è valsa la pena, però: la temperatura, qui sotto le fronde dei pini, è impagabile.

A un certo punto il sentiero si biforca, scendendo verso la spiaggia o verso il parcheggio e lo stradone che porta al resto della città. Opto per la seconda opzione.

Prima di voltare le spalle alle voci degli altri bagnanti guardo verso le nostre due sdraio. La mia è occupata dal volume del Taccuino di un vecchio sporcaccione di Bukowski, che ho in programma di finire prima di rimettere piede in Italia. Carla ha reclinato lo schienale della sua e l’ha spostata qualche metro più avanti, in uno dei pochi spicchi di sole pieno al di sotto della pineta.

Dovrebbe riposare e invece ha gli occhi fissi sullo schermo dell’iPhone. Anche se ha deciso lei di venire qui, so che si sta annoiando. Ha una gamba distesa e una raccolta. Vedo qualche accenno delle forme del suo corpo in costume e mi rendo conto che se non fossi stato presente durante il parto non potrei mai intuire quel che ha passato nell’ultimo anno. Ma il fatto è, che c’ero.

Riprendo a camminare e ricomincio a canticchiare. Viola non smette con la sua litania.

Passiamo attraverso lo stesso cancello che qualche ora fa ci ha portati alla spiaggia, e che interrompe il muretto dell’albergo. Davanti a noi si staglia un labirinto di cemento bollente: diverse macchine sono parcheggiate in posti strategici, già del tutto all’ombra dei primi stralci della pineta o in procinto di esserlo. Cerco di sfruttare le zone ancora libere ma non ne rimangono molte.

Sempre a caccia dell’ombra faccio un giro più ampio. Mentre torno indietro verso il cancello, d’improvviso il cielo esplode con il gracchiare di un intero stormo di uccelli che abbandonano i loro nascondigli tra le fronde degli alberi. Mi blocco. Trattengo il fiato e rimango in attesa, sicuro di dover sentire da un momento all’altro l’urlo o i singhiozzi di Viola. Da dentro il passeggino, però, i mugugni assonnati proseguono come se niente fosse e torno a muovermi.

Subito oltre il cancello si sono radunati alcuni bagnanti; sono tre o quattro, un papà con un bambino sui sette anni, due ragazze e un terzo ragazzo sulla ventina. Se ne stanno in cerchio, guardano fisso per terra.

Quando passo loro accanto getto un’occhiata anch’io: sul terreno è riverso il corpo di un corvo, nero come le rifiniture esterne del passeggino, con il collo piegato in una posizione innaturale e una delle ali distesa come se non riuscisse più a muoverla. Dal becco emette qualche gorgoglio e una delle zampe, a intervalli mai regolari, scatta come se nei propri ultimi attimi di vita il corvo volesse riportare alla mente qualcosa di ormai superfluo.

L’animale rantola e continuiamo a guardarlo.

Poi il papà e il bambino se ne vanno, il secondo che si lamenta piagnucolando e il primo che lo sgrida in italiano. I tre ragazzi prendono a parlottare tra di loro in tedesco finché il giovane del gruppo va verso degli asciugamani gettati sotto l’ombra della pineta, mettendosi a cercare qualcosa in uno zaino.

Rimango dietro le due giovani tedesche nei loro costumi striminziti. Non avranno più di vent’anni, i fianchi stretti e i culi sodi e vorrei che almeno una delle due si girasse a guardarmi e mi sorridesse.

Animale morente batte addirittura giovane padre che passeggia con la figlia, però.

Il giovanotto tedesco, una volta tornato, apre la bottiglietta e si china sul corpo martoriato del corvo cercando di fargli ingoiare un sorso d’acqua, come fosse un viandante nel deserto e soprattutto come se il gesto potesse davvero servire a qualcosa.

Dopo qualche minuto, senza dire nulla, le due ragazze abbandonano il campo e tornano agli asciugamani. Prima di unirsi a loro il tizio raccoglie il corvo da in mezzo al sentiero e lo poggia ai piedi di un pino, contro una radice sporgente.

Il brusio della spiaggia torna ad alzarsi tutt’intorno.

Da dove il tedesco ha posizionato il corpo del corvo, chi sta nella piscina privata oltre il muretto non può riuscire a vederlo. Anzi, mi rendo conto che è molto probabile che nessuno di loro si sia nemmeno accorto di quel che è accaduto. A nessuno era importato, a nessuno sarebbe mai più importato.

Il cadavere sarebbe rimasto lì dov’era, marcendo e decomponendosi fino a diventare parte stessa dell’albero e del sentiero sabbioso. Parte del mondo ma al di fuori di esso allo stesso tempo.

Mi accorgo di non sentire più la vocetta bassa di Viola. Sposto lo sguardo all’interno del passeggino da sopra la scocca abbassata e la guardo: è sempre spaparanzata nella sua posizione ridicola ma questa volta ha gli occhi chiusi. Dorme, finalmente, il ciuccio che penzola da oltre il bordo del passeggino, inservibile come una struttura vestigiale fatta di caucciù.

Sento il cellulare vibrarmi nella tasca del costume. È Carla, manda un messaggio per chiedermi come sta andando con la bambina. Potrebbe alzarsi e raggiungere il cancello in pochi secondi ma non lo fa.

Quel messaggio arriva da una dimensione oscura e aliena che oggi sono troppo stanco per poter tentare di raggiungere.

Rimetto il cellulare in tasca e manovro con delicatezza il passeggino per cercare di non svegliare subito Viola. Quindi, questa volta senza canticchiare, comincio a camminare verso la spiaggia allontanandomi sempre di più dal corpo del corvo.

tutte le fotografie di Roberta Amelia Carrara.

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