La serie di Fibonacci

un racconto di Jasna Dimitrijević,
traduzione dal serbo-croato di Sara Latorre (titolo originale Fibonačijev niz),
editing di Anna Chiara Bassan.

Aeroporto di Belgrado. Mezzanotte. Meno 15 scivolosi gradi. L’aereo era in ritardo, ma Želja aveva una corsa programmata. Avrebbe aspettato il necessario. Avevano un accordo ed era importante. 

E il freddo gelido le piaceva.

La radio era sintonizzata su Radio Belgrado 3. Quando le note del brano classico si azzittirono, Koviljka Panić inspirò profondamente e lesse il titolo: La teoria dei numeri in Pynchon: previsione del fallimento.

Pensò quanto fosse strano. Se dieci anni prima qualcuno le avesse detto che in una notte così avrebbe avuto in mente soltanto una cosa – finire il lavoro e tornare a casa – avrebbe risposto che nella sua vita qualcosa doveva essere andato proprio storto. Che sarebbe stata triste. Sarebbe stata preoccupata. Invece, ora era solo assonnata e affamata, congelata e indifferente. 

“La serie di Fibonacci è una serie matematica rilevata in molti fenomeni fisici, chimici e biologici. Consiste in una successione di numeri in cui la somma dei due numeri precedenti corrisponde al valore del successivo elemento della sequenza. L’indicizzazione degli elementi di tale serie parte dallo zero, i primi due elementi sono 0 e 1”.

“La somma dei due numeri precedenti corrisponde al valore del successivo elemento della sequenza”, ripeté tra sé, e si diresse verso l’edificio con il foglio sul quale c’era scritto il nome dell’uomo.

Eravamo usciti in slitta. Non avevo più di tre anni. Il parco era coperto di neve fresca, quella soffice. Il papà mi mostrò come fare le sagome. Prima si buttò lui di schiena, poi io. Non avevo paura. Era gelido sulla neve sotto al sole. Era luminoso. Ero super felice. Decisi che non avrei mai dimenticato quel momento e me lo sono ricordato ogni giorno. Ufficialmente, questa è la prima cosa che mi ricordo. La gioia nel freddo cane.

Gli anni erano passati finché non l’avevano lasciata in pace.

Era cominciata con le occhiatacce, poi si era allargata ai commenti a voce alta degli uomini e agli insulti sussurrati, infine era culminata nel taglio delle gomme della sua Saab. Era una notte, silenziosa come questa, era scesa ad aspettare un passeggero, e al ritorno aveva trovato la gomma della ruota anteriore a terra. Per loro lei era una concorrenza sleale e la precisa somma di tutte le frustrazioni.  Lei che i soldi li guadagnava in modo veloce e facile, e poi quei soldi erano loro, dei tassisti dell’associazione. Per di più, una donna! Era, per dirla con un eufemismo, malvoluta in una cerchia molto ristretta.

Nella cappella all’inizio soltanto il freddo delle pareti e l’odore dell’incenso. Ma poi la gente accende le candele, piange e mi stringe in abbracci intollerabili. Gli occhiali me li sono tolti quando hanno iniziato ad appannarsi sulle guance dei parenti. Li reggo con la mano sinistra, con la destra stringo mani. L’amputazione di almeno un senso aveva reso la cosa più sopportabile, me lo ricordo chiaramente. Quando arrivammo a casa, mia madre ripeté la frase che per tutto il giorno mi aveva spaccato i timpani: «Željka, siamo rimaste sole». E mi mandò in camera a fare i compiti. In quel momento iniziai ad avere paura di lei.

Arrivò con il primo gruppo di passeggeri. Spilungone e serio, con un cappotto nero dal bavero alzato, non fece nemmeno tre passi che Želja gli si avvicinò con il palmo teso. Si scambiarono i nomi in modo formale e uscirono fuori.

Mise un disco dei Boye prima che rotolassimo sul materasso. Svapò su di me birra e ormoni. In quella posizione mi tratteneva solo il tenue odore di dopobarba che conoscevo e che le mie narici avevano captato sulle sue guance. «Mio padre è con la delegazione a Gazimestan, torna solo stasera», mi borbottò nel collo. «Resti da me stanotte? Finalmente siamo soli…». In soggiorno avevano spento la musica. Pensai che la festa fosse agli sgoccioli e che presto sarebbero andati a casa, ma poi qualcuno mise una cassetta nel videoregistratore e partirono gemiti e sospiri. I ragazzi facevano il tifo. «Dosta! Dosta! Dosta!», gridava Jasna M. dei Boye mentre io mi rivestivo. Il lunedì a scuola non ci parlammo fino all’ora di serbocroato. E nemmeno dopo.

Tutto sommato, forse era andata nel miglior modo possibile.

Dopo la morte della madre aveva scambiato il trilocale con un bilocale mansardato e un’affidabile Saab. Quando non ci fu più nessuno a criticare le sue scelte, poté elaborarle senza pressione. Così iniziò a guidare. Tratta: aeroporto-città. All’inizio solo amici, e amici di amici, quelli che prendevano spesso l’aereo e spesso aspettavano e accompagnavano passeggeri.

Dopo un’edizione dello Slobodna zona, durante la quale l’avevano ingaggiata per portare in giro gli ospiti del festival, piano piano la sua lista di clienti aveva iniziato a riempirsi di gente della cricca del cinema, prima della scena regionale, e poi anche di quella un po’ più fuori, più allargata. E adesso, finiti i maltrattamenti dei tassisti non solidali – a un certo punto avevano capito di non guadagnare affatto meno da quando lei era nei paraggi – si sarebbe potuto dire che il suo mestiere se lo godeva abbastanza.

Vibravano i carri armati e gli applausi mentre mia madre in cucina consolava la vicina Dragica. Quella sera stavo leggendo Bachtin e prevedevo un bel casino. David si preparava per il Canada, mentre io credevo di non avere scelta al di fuori di questo posto. Credevo anche che esistesse una soluzione soddisfacente per quel compromesso. Poiché la fusione con ciò che mi circondava non era possibile, avevo scelto un’esistenza invisibile. Leggere e tacere. Avevo trovato libertà e sicurezza, avrei capito più avanti, nella scelta consapevole della prigionia e dell’insicurezza. Sulla soglia la vicina saluta mia madre e alla fine aggiunge: «Fammi solo sapere quando finisce gli studi, conosco il direttore…». Gli ultimi camion militari percorrevano l’autostrada sotto la nostra finestra. Dall’altra parte, oltre il cavalcavia, vidi due donne in pigiama. Una stava ferma in piedi, mentre l’altra era seduta su una sedia a rotelle. Con loro c’era anche un’infermiera. Le donne piangevano, mentre l’infermiera aspettava di riportarle in reparto.

La radio era gestita dal collettivo Belgrade Yard Sound System: i pizzicati di contrabbasso sotto scariche elettriche e i cigolii del sassofono riempivano l’interno dell’automobile gialla della realtà del migliore dei film. Nell’oscurità non si vedevano i campi a sinistra e a destra della strada ghiacciata, né i negozi di merce “all’ingrosso”.

La serie infinita di case a due piani incompiute scorreva dall’altro lato del fossato. Ma tutto ciò era nascosto dal ritmo dei lampioni e dal tremito dei fiati alla radio. Al passeggero piaceva il trattamento inaspettato che stava ricevendo in quella macchina: non solo non aveva dovuto rispondere a domande curiose e gli era stato permesso senza alcun commento di accendersene una, ma perfino la musica era eccellente, lui non avrebbe saputo sceglierne di migliore.

«Damn good play», disse, più a se stesso.

 «Belgrade Yard Sound System». Lei avrebbe voluto aggiungere anche che lui non avrebbe incontrato tipi del genere là dove stava andando, ma un commento così sarebbe stato troppo frettoloso, poi magari non avrebbe più avuto occasione di farne uno migliore. E lei voleva dirgli molte cose.

«Chi ti ha dato il permesso di parlare loro in questo modo del nostro maggiore scrittore? Da dove ti viene l’idea di analizzare in questa maniera il materiale? È così che tieni le lezioni…Vieni nella mia scuola ad avvelenare i ragazzi? Non te lo permetto! Metti la musica, li porti al cinema a vedere quei…film da tossici. E poi piantala con Blake! Tu con Blake mi…», schiumò il direttore Marković. Fuori l’autunno lottava con la vita, accanto alla finestra Dragica si mordeva le labbra. Alla fine mi disse solo: «Sei sempre stata così tranquilla…Cosa ti succede di punto in bianco? Mi hai talmente delusa. Anche la tua povera mamma…».

Ma mia madre – a poche ore dalla nostra grande lite e dal momento in cui me ne sarei andata di casa – impastava la pasta per lo strudel e sceglieva il vestito per il pranzo con Bogdan.

«Coffee?». Si era ricordata di averne ancora un po’ nel termos. Lui lo accettò, «Thanx», se ne accese un’altra. E questo fu quanto.

Sul sedile posteriore della sua automobile sedeva l’autore dei film che l’avevano plasmata, formata, trasportata in luoghi migliori. Si sarebbe potuto dire che lui era l’autore della sua biografia, e che non ne aveva idea.

Lei avrebbe voluto fermare la macchina, voltarsi e dirgli tutto, tutto con ordine.

Voleva avere la conferma che tutto aveva avuto un senso, che era valsa la pena di vivere come Želja solo perché una notte loro due si incontrassero e si capissero. Ma ricevette il suo quieto disinteresse, che le ronzava nelle orecchie come una canzone beffarda, le comunicava che un mondo del genere, e lei dentro, difficilmente potevano valerne la pena. In quel momento perse di colpo peso, forza, la vergogna la infiacchì e le fece alzare la febbre, solamente la cintura con cui era legata al sedile la teneva dritta.

Nei suoi pensieri arrivò, come un diavolo fastidioso, il ricordo del patto di quindici anni prima con una se stessa più forte che, ecco, era stato il motivo di tante promesse mantenute, ma adesso le sembrava che non ce ne fosse forse neanche bisogno. Se fosse andata diversamente, questa notte ci sarebbe stata forse meno vergogna. 

Ora voleva raccontare del licenziamento dalla scuola, voleva dirgli che a quel festival cinematografico, finanziato dallo Stato, ci sarebbe stato proprio quello scrittore che lei aveva tolto dal programma, e che al posto di quella prosa nazionalistica, ai liceali incazzati lei aveva fatto vedere i suoi film. Avrebbe voluto, ma il passeggero dalle sopracciglia bianche sul sedile posteriore taceva, gli occhi socchiusi.

Il passeggero viaggiava solo, e Želja non era la sua compagnia in quel posto freddo.

Ho mandato giù un brufen e mi sono messa il gel contro i dolori muscolari appena Bogdan è uscito per andare al lavoro. Se mi avesse visto farlo, sicuramente avrebbe detto che stavo esagerando. Se gli avessi detto che quella di ieri notte non era stata passione ma disprezzo, mi avrebbe aggredita ancora di più. Non perché non sappia che ci ha tenuti insieme solo il mio rapporto con mia madre, ma proprio perché lo sa. Però ci ho provato.«È tutto come il Kosovo…le cose importanti sono successe molto tempo fa. Adesso ci limitiamo a constatare». Non mi ha neanche guardata quando se n’è andato. La fuga è l’unica separazione possibile. Basta! Essere sola, essere al sicuro.

Al suo disagio pose fine un incidente stradale: la carrozzeria accartocciata stava in mezzo all’incrocio, spinta via da un autobus del trasporto cittadino. Sembrava che avrebbero dovuto aspettare la conclusione dei rilievi. Chiese al poliziotto se ci fossero feriti e quando sarebbe stato possibile proseguire. Sì, ce ne sono, sono già stati portati al pronto soccorso da un automobilista. È un casino, ma nessuno è in pericolo di vita. Tra un minuto potrete passare.

Appena ebbe riferito al passeggero, intento a fissare i pesanti brandelli di neve che cadevano su un’automobile nella corsia adiacente, che non sarebbero stati trattenuti a lungo, il poliziotto fece segno di proseguire. Si allacciò la cintura e buttò alle sue spalle un «Nobody’s dead».

Quando penso a quell’anno in silenzio (lo chiamavo così il periodo tra la separazione da Bogdan e la morte di mia madre – l’anno in silenzio!), provo solo nostalgia per il momento in cui sono stata più vicina a me stessa. Mia madre aveva accettato che non sarei diventata ciò che lei aveva pianificato per me, ma allo stesso tempo era anche contenta che il mio sbandamento non fosse chiassoso e in vista. Io costruivo le carriere altrui, scrivevo le tesi degli studenti delle università private e vivevo questa mia unica vita con il lenimento che finalmente sarei stata contemporaneamente sia accettata che mia. Non avevo grandi ambizioni, non facevo grandi sogni. Perché questa sono io, la tranquilla Želja – libri, film, fantasia, malinconia – perché no? Perché no?

Non proferirono parola fino all’hotel.

Una frenata maldestra spinse l’auto un po’ oltre il ciglio della carreggiata. Lei spense il motore e accese la luce. Lui prese le sue cose quando lei gli aprì il bagagliaio, si fermò sul marciapiede e aspettò che lei si sistemasse e partisse. Le mandò un saluto attraverso la tenda bianca: «Take care». Želja fece sì con la testa e la Saab poté proseguire lungo la notte. 

tutte le fotografie di Marija Mandić.

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