Distanze

un racconto di Serena Penni,
editing di Alessandro Tesetti.

Mi chiamo Caterina, sono nata il 19 febbraio 1971.

La mia vita si è fermata nove anni e mezzo fa, in un parco divertimenti sulla costa adriatica. Oggi guardo il cielo, gli alberi, le macchine parcheggiate, le persone che camminano, ma non vedo più niente. Me ne sto sempre seduta sulla sedia a dondolo. Mi alzo solo per mangiare, per andare in bagno, per sgranchirmi le gambe o per sdraiarmi sul letto. Non esco mai di casa, la spesa me la faccio portare.

La donna che abita nell’appartamento di fronte al mio non chiude le tende e ogni tanto, come stasera, mi osserva.

Davanti ai miei occhi, sempre la stessa scena. Le montagne russe che finiscono in una bocca di squalo spalancata, il baracchino dell’uomo che vende lo zucchero filato e, accanto, quello dei gelati. Sono le cinque di pomeriggio ma il sole picchia ancora, rimbalza sui tavolini azzurri del bar, sulla ghiaia, sui palloncini colorati dei bambini, sui bracciali delle madri, nonne, baby sitter che li accompagnano.

La donna che vive davanti a casa mia sta bevendo decisamente troppo: ora si versa un altro bicchiere di vino rosso. È in piedi e guarda nel vuoto. 

Era il giorno del suo secondo compleanno.

No, era il giorno dopo, perché il parco era al completo. Se ci fossimo andati il giorno del compleanno, magari sarebbe stato tutto diverso. Ho scelto io stessa la mia infelicità, adesso lo capisco. L’ho scelta perché con le cose belle non mi sono mai sentita a mio agio.

Dopo anni di tentativi, io e Filippo eravamo riusciti ad avere un bambino. Era nato di giugno e lo avevamo chiamato Francesco; sorrideva spesso guardando il cielo e aveva i lineamenti ben proporzionati. Poco importava se voleva continuamente essere attaccato al seno, anche di notte, anche mentre mi stavo provando un vestito o mentre la parrucchiera mi tingeva i capelli. Filippo era raggiante.

Si immaginava che suo figlio sarebbe diventato un secondo se stesso, più libero, con meno pesi da portare.

Eravamo felici, certo, ma io mi cercavo nello specchio e non mi trovavo, il mio viso mi appariva sfiorito; il biondo dei capelli, spento; lo sguardo, triste. A lungo ci era mancato qualcosa, e avevamo girato per cliniche, specialisti, studi medici.

Poi, in un giorno di vento, dopo aver visto quattro corvi volare, ero corsa a casa a fare il test di gravidanza, che mi aveva rivelato ciò che già sapevo. I mesi successivi erano scivolati via con dolcezza. I dolori del parto li avevo dimenticati in fretta. 

Sì, al parco divertimenti sono stata io a decidere di mettere fine alla mia felicità. Ero certa che Filippo avesse un’altra donna. Ne ero sicura come lo ero stata di essere incinta, il giorno in cui avevo visto i corvi. Questa volta a rivelarmelo erano state le mille nuove attenzioni che mio marito rivolgeva al suo aspetto esteriore – il taglio di capelli, gli abiti, persino le unghie, ora perfettamente curate – e una vespa cattiva che mi aveva punta proprio mentre lo stavo guardando farsi un selfie in giardino, con l’odore pungente di carne alla brace e le margherite che piegavano il capo sotto la forza struggente del sole. 

Al parco divertimenti sulla costa adriatica è finita una vita e ne è cominciata un’altra. È finita la vita della felicità – seppure forse non reale, solo supposta –, della crescita – Francesco si trasformava a vista d’occhio, ogni giorno imparava cose nuove – ed è iniziata quella dell’assenza totale di movimento.

La donna nell’appartamento di fronte al mio è una psichiatra. Non so chi me lo ha detto. Adesso ha smesso di bere vino rosso. Ha posato la bottiglia e il bicchiere sul tavolo. Si tiene la testa tra le mani.

Il parco divertimenti interessava forse più a Filippo che a Francesco. Si era lanciato sulle montagne russe come un bambino cresciuto, come un adolescente invecchiato. Mi aveva lasciato il suo zaino in custodia; senza accorgersene, mi aveva consegnato le chiavi per l’inferno.

La psichiatra scaraventa il bicchiere per terra. Immagino che faccia un gran fracasso e che i pezzi di vetro finiscano dappertutto.

Il codice del cellulare di Filippo lo conoscevo.

Lo cambiava di continuo, ma era inutile. Sbloccando il telefono, ho potuto leggere tutti i messaggi. Ho scoperto che Filippo aveva una relazione con tale Miriam. Miriam, non era il nome della protagonista di un romanzo di David Grossman? Sì, certo. Che tu sia per me il coltello.

Tutto torna. Miriam, che non aveva volto, che non era altro che una manciata di caratteri troppo piccoli, di frasi scontate, di parole ripetute, è stata il coltello per la finta felicità di allora. Francesco affogava in una montagna di zucchero filato, accanto a me. Lui non mi avrebbe tradita, non mi avrebbe mai abbandonata. Mentre pensavo queste cose, lacrime grosse e salate mi rigavano il viso, il collo, si mescolavano al sudore. Ho visto Filippo tornare barcollando dalle montagne russe, ho visto la sua faccia trasformarsi da allegra in sgomenta. Mi ha tolto con rabbia il cellulare di mano.

«Cosa ti salta in mente, stupida pazza?»

Non aveva mai usato quel tono con me, la voce non sembrava nemmeno la sua. Prese a urlarmi in faccia la sua perfida fragilità. Gli occhi, trasformati in fessure, erano fissi nei miei che, a loro volta, sostenevano quello sguardo senza sfuggirgli. Teneva stretto il cellulare con la mano destra agitandolo in aria. Le persone che passavano, ancora spensierate, pronte a dirigersi verso la prossima barchetta, verso il prossimo otto volante, verso il prossimo trenino, ci lanciavano occhiate fugaci poi passavano alla larga, quasi che la nostra disgrazia fosse contagiosa.

Il mondo era finito solo per noi. A un certo punto tutto si è fermato.

Filippo ha smesso di urlare, le persone hanno smesso di camminare, ridere, scherzare, i palloncini hanno smesso di volare.

La psichiatra della casa di fronte sta immobile vicino alla finestra, tra due tende bordeaux di stoffa pesante che non chiude mai. Si è versata un altro bicchiere di vino. Filippo, Miriam, dove vi trovate oggi?  E tu Francesco, soprattutto tu, dove sei? Nella mia testa avrai per sempre due anni e un giorno, mangerai per sempre zucchero filato in un parco divertimenti che sembra fatto di cartapesta, sotto un sole troppo caldo e luminoso.

Io e Filippo ci siamo resi conto contemporaneamente di quello che era successo.

Perché una signora ha gridato Francesco. Era un richiamo che conteneva un’inflessione di lieve rimprovero. Qualcuno ha risposto, e allora ci siamo accorti del vuoto che avevamo accanto. La verità ci è piombata addosso leggera e crudele. Mentre noi eravamo catturati dalla nostra stessa miseria, la nuvola di zucchero filato era diventata un mostro e si era mangiata nostro figlio. Il mostro aveva la forma di un’ombra scura e lunga che, per un attimo, aveva attraversato il mio campo visivo senza che io la registrassi.

L’ho rivista solo dopo, nel ricordo, quando ormai non serviva più a niente. Poi la corsa di Filippo, la polizia, la denuncia, i giornalisti, le domande. Il vuoto, il pianto. I giorni tutti uguali, passati a ferirmi con le mie stesse mani, a rimbalzare contro le mie stesse ossessioni, le mie stesse domande.

A un tratto, riaffiora alla mia coscienza un ricordo nuovo. Un’aula di tribunale; la psichiatra, la mia vicina, chiamata a testimoniare. Era stato Filippo a farmi causa. Mi riteneva responsabile di tutto quanto ma dimenticava alcune cose. La psichiatra ha fatto un’ipotesi sul mio stato mentale alterato, su una depressione maggiore, su una forma di psicosi, un qualcosa di impronta genetica. All’improvviso la rivedo come se fosse ieri: si era messa un tailleur grigio e una camicia chiara, di seta. I capelli scuri le ricadevano sulle spalle.

Ma c’è un altro motivo per cui era lì, ci conoscevamo da prima, da un tempo immemorabile. Adesso mi pare che si asciughi gli occhi. Possibile che anche lei si ricordi ancora che oggi è il compleanno di Francesco? Filippo voleva mandarmi in prigione e in qualche modo ci è riuscito, visto che non esco più di casa. Se la psichiatra mi guardasse davvero, se mi sentisse, le direi che ho dimenticato, ho ignorato per scelta, ma in fondo ho sempre saputo tutto. 

Eravamo sorelle, io e lei, io e la psichiatra. Io e te.

Non ti chiami Miriam, ti chiami Ilaria, ma cosa vuol dire? Filippo può aver cambiato il tuo nome nella rubrica ma non la tua identità. Eri una delle persone più care che avevo al mondo. Nella mia infanzia ritrovo il tuo viso, le tue trecce nere, i tuoi vestitini rosa o bianchi sporchi di marmellata. Nella mia vita di donna eri la complicità, la sicurezza. Potevi avere chiunque e hai voluto Filippo.

E allora, quello stesso giorno, io ti racconterò che mio figlio Francesco lo sogno quasi ogni notte, da nove anni e mezzo. Sono sogni confusi, disperati. A volte sogno il parto: a squarciarmi le viscere non è un bambino ma un enorme granchio che, con le chele, mi strappa pezzi di carne.

A volte vedo la testa di Francesco dividersi dal corpo e volare in cielo, mentre mi sforzo invano di acchiappare un filo che pende dal collo; altre volte mi aggiro per grandi palazzi dall’architettura intricata e fatiscente, sento la voce di mio figlio che mi chiama, mi sembra vicinissima ma quando entro nelle stanze trovo solo pezzi di ferro arrugginiti, vetri, fiori di plastica.

O ancora, lo sogno insieme ad altri bambini, ad altri genitori, in altri mondi, pieni di sangue, d’acqua e di latte cagliato. Filippo invece non lo sogno mai, eppure mi manca anche lui, specialmente quando, alla mattina presto, vedo la luce grigia e tetra filtrare attraverso le persiane chiuse; quando i miei piedi scalzi incontrano il pavimento gelato e mi domando quante ore mancano per arrivare a sera.

Forse ti dirò tutto questo, Ilaria, eppure ormai non ti odio più. Hai già avuto la tua punizione. Il tuo vino e i tuoi bicchieri frantumati stasera mi raccontano la tua solitudine. Mi rivelano che alla fine Filippo ha abbandonato anche te.

tutte le fotografie di Linda Leveghi.

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