L’ora fenicia

una raccolta di Alberto Varsalona.

Didỳmē

Nei flutti incerti cercavi nuova
nascita, impensabili riverberi:
cangiante presenza s’iridava,
risorgeva sull’arco di sempre
a rivelare l’ombra d’ogni cosa,
natura intima o segreta vita.
Un fascio di posidonia copriva
il corpo, forse noto, sullo scoglio 
(era avanzo di terra o di mare?)
e lungo i fusti delle felci erano
incisi i nomi dei morti: mi dissi
di non sfiorarle, di non cercarle.
Salivi sentieri di fuoco e polveri
a testa bassa, inseguendo nome
greco tra le labbra - Didỳmē -
isola gemellare, preda araba,
oltre ogni rotta, ogni ritorno
all’ora viola che arriva, arriva:
nell’onda ferma guardavi morire 
quel Dio di cui ti parlavo: rossa
sfera s’accese e creste divampava,
dal vulcano franato sangue eroso,
luce o magma riflesso scendeva,
inesorabile, sugli antri del mare.

Nekyia

Fuoco riflesso cala al meriggio,
spopolano i corpi puri al vetro, 
blocchi di luce, spettri alle spalle,
e nella pozza lorda di sale duro
forse il tempo, scoperto, storna
tra le schiume immote del limo,
e spazza l’ombra dell’isola lontana.
Al fosso, sul greto aspro e assolato, 
un senza nome d’ossa e ceneri
ha impresso la smorfia crepata
di un Dio, il suo sorriso ignoto,
e pare farsi beffe di vita e morte,
che sono solo spartenza e ritorno
allo Stretto corusco d’ogni tempo.
Trame di scogli, orli di muschi
all’iride scossa e aspersa che sale
alla campagna, su per il vulcano:
l’eterna ferocia della storia
è lava che preme sotto la sciara;
il cratere in cui giace la memoria,
battesimo a zolfo d’ogni verso.

Mania

Eri, Tu, sempre diversa
sul sarmento sanguigno
di ogni mio lieto pensiero:
schiuma, pomice di mare,
scorreva aperta la presa:
lampo di marna, falesia.
Verticale mania solare
s’abissava sul tuo viso,
e torno alle tempie avevi
inciso il cerchio oscuro
e antico di ogni scontro:
dell’incendio notturno
non rimane che qualche
fuoco ai campi, e i viticci
riarsi, in spire di ceneri,
cercano ora solo nuovi
e veri attacchi per l’aria.
Rimarrà ancora sepolta
la bianca testa di satiro?
Che venga fuori da sé
vorticando posidonia,
tra le ombre memorate
che a riva la attendono.

L’ora fenicia

Un ruggito di sfinge alla sera
è il richiamo della Raisa; Te 
vuole, il fiato sfibrato di fera,
e tuona sulle cupole dei mori:
non l’emiro canto della sura
o metrica di verde minareto
sale vorticando oro e mosaici,
ma un soffio di sole da conca,
ove spira la bocca dell’ombra:
ritorna alle cadenze passate
ora che senza storia scorrono             
i corsi della stagione – quando            
nasceva moriva il tuo passo                 
ai campi, la luna alle maree. 
Se di un giro capirai l’incastro
segreto, allora reggiti all’olivo
antico, guata e non tremare:
svampò a mare l’ora fenicia,
coi suoi fumi di là dal faro
rimestò sul fondo le sabbie
di orli, anse, teste mancanti;
egro presente che smemori
non un palpito sei del greco
enigma; al largo, nei vortici
di luce t’inabisserai col tuo
corteo d’infelici, a risalire,
un giorno, le vere correnti 
oltre lo Stretto, oltre la vita.

tutte le foto di Aisha Filetto.

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