Il secondo figlio

un racconto di Laura Scaramozzino,
editing di Anna Chiara Bassan.

Lo scarafaggio bianco si era fermato sulla mattonella, sbilanciandosi con il dorso verso il lato sinistro. Gli mancava una zampa e avanzava solo dopo lunghe soste di un minuto circa.

Per via di quel colore lattiginoso, e del suo procedere lento ma costante, mi si è aperto un vuoto nello stomaco. Ho respinto un conato e desiderato che tutti gli scarafaggi diventassero bianchi e sofferenti. Per quanto apparisse repellente, provavo per la bestia un’insolita compassione dovuta alla sua triste unicità. Poi ho pensato che uno scarafaggio non prova dolore, tuttalpiù, nel caso specifico, un logorio avvertito all’altezza dell’addome, nella congiunzione fantasma del fianco con la zampa assente.

Ho sfilato la pantofola grigia, appoggiato il piede sul pavimento e sentito il freddo della mattonella filtrare attraverso la calza. Sono rimasta immobile con la pantofola in mano e ho inalato l’odore sintetico del tacco. Ho fatto un passo verso lo scarafaggio e ho calato la pantofola per schiacciarlo. A impatto avvenuto, l’insetto è rimasto immobile.

Non sembrava morto, solo premuto contro la mattonella in uno stato di sopore del tutto naturale.

Dopo aver rinfilato la pantofola, sono andata nello stanzino buio pieno di sacchetti di plastica e detersivi blu. Ho acceso la luce, preso la paletta e la scopa con le setole coperte di lanugine. Ho spazzato lo scarafaggio in fondo alla paletta e l’ho seppellito sotto una spruzzata di briciole dure.

Dato che erano già le dieci del mattino, ed era il mio giorno libero, sono andata in cucina a preparare il pranzo. Ho cotto le verdure nella padella rivestita di rame e percepito l’odore ferroso stemperarsi nel vapore delle erbette. Una volta pronte, ho ricoperto le pentole con la stagnola in modo che rimanessero tiepide fino all’arrivo di Andrea.

Durante i pasti, i miei figli Andrea e Francesco raccoglievano la verdura con la forchetta a più riprese. Formavano ammassi che gli gonfiavano le guance dopo ogni boccone.

Non era difficile accontentarli.

Volevano cose semplici, cotte sul momento: pesce, verdure, enormi ciotole d’insalata. Qualche volta facevo la pasta e li guardavo mangiare, risucchiare gli spaghetti e sporcarsi le labbra con i grumi del sugo.

Oggi ho preso il giorno libero perché domani Andrea si addormenterà. Volevo passare del tempo con lui, ma come fosse un giorno normale.

Una volta, mentre facevamo colazione, mi ha detto che la sua vita gli piaceva e che se avesse fatto una gita al mare, o una grande festa, non avrebbe avuto il modo di godersi niente. Il tempo sarebbe trascorso rapido, invece a lui interessava che avesse un ritmo quotidiano.

Ho fatto la doccia e mi sono truccata davanti allo specchio circolare della camera da letto. Ho usato un ombretto color prugna. Risalta gli occhi, verdi come quelli di Andrea.

In questo periodo, Francesco ha lasciato spesso che il fratello vincesse ai videogiochi. L’altro giorno Andrea se ne è accorto e gli ha urlato che era un cretino. È uscito dalla stanza e ha sbattuto la porta con un tonfo secco. Poi è sceso di sotto a bersi un succo di arancia. Non aveva le pantofole e si sfregava un piede contro l’altro, nascondendo gli occhi rossi dietro il cartone del succo. 

Si potrebbe dire che io non pianga da anni.

Durante la gravidanza ho pensato di abortire più volte, ma ogni notte sognavo Francesco che teneva per mano un bambino con una salopette rossa. Ho capito che Andrea già esisteva, con i suoi occhi verdi e la maglietta di spugna a righe.

Ero rimasta incinta per caso, come era successo per Francesco. Sapevo che, al compimento degli otto anni, Andrea si sarebbe addormentato per sempre. Lo avrebbero messo in una grande stanza bianca, piena di luce. Allo Stato sarebbe costato poco nutrire le sue vene nel sonno. Era il destino di ogni secondo figlio, non c’era nulla che io potessi fare. Andrea sarebbe invecchiato al ritmo di un respiro lento e regolare. Avrebbe sognato: sogni lunghi e nitidi come la grande stanza in cui riposava, e poi un giorno sarebbe morto e avrebbe conosciuto l’oscurità più grande.

Non mi restava che vivere questo ultimo giorno come lui voleva.

Ho indossato una camicetta verde torroncino e sono uscita per andarlo a prendere a scuola.

Ho camminato sotto il sole tiepido di maggio e pensato che il giorno dopo non avrei più dovuto fare quel percorso. Non avrei più visto le cancellate azzurre della scuola sbiadire nella luce incerta della primavera.

Al suono della campanella, Andrea mi è venuto incontro come sempre, trascinando l’enorme zaino a rotelle e guardando in basso. Gli occhi sulle Converse consumate che l’indomani avrei abbandonato nello stanzino dei sacchetti e delle scope.

È successo tutto molto in fretta e ancora mi chiedo se sia vero che con il tempo la memoria rallenterà ogni cosa, sovrapponendo al ricordo un riverbero biancastro, luminoso.

Eravamo fermi al semaforo ed è scattato il verde.

Andrea ha attraversato senza guardare né a destra né a sinistra. Aveva fretta di tornare a casa, di mangiare le verdure e di vincere con merito ai videogame contro il fratello.

L’auto è arrivata sfrecciando e lo ha preso in pieno. Ho sentito il tonfo, lo stridio delle ruote, ma ho avuto l’impressione di non vedere davvero niente. Le cose troppo rapide tendono a diventare invisibili.

L’ho visto in modo chiaro soltanto in seguito, quando il suo corpo è caduto sull’asfalto come un fantoccio: la testa spaccata, le mani aperte. Intatte.

Sono rimasta immobile per un tempo che non so quantificare.

Appena sono salita sull’ambulanza, ho telefonato a Francesco, che aveva il tempo pieno. Senza rendermene conto gli ho detto che Andrea si era già addormentato.

tutte le fotografie di Nikk Martin.

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