Ramingo

un racconto di Sara Paolella,
editing di Anna Chiara Bassan.

«Allora quanto?», e Lorenzo sente le parole disperdersi nell’aria, le sillabe leggere come il vento, i fonemi sparire tra le nuvole sparse nel cielo. ‘Allora quanto?’, si ripete nella testa e non sa darsi una risposta, percepisce gli occhi del tizio della concessionaria bucargli la pelle, lo guarda scocciato, che già gli sta facendo un favore a interessarsi a quel vecchio catorcio azzurrino – la vernice è pure rovinata in alcuni punti.

Lui invece la ricorda ancora brillante, come la prima volta che quell’onda del mare aveva sterzato d’un tratto nel vialetto di casa: un blu limpidissimo aveva inondato il giardino curato a fatica da sua madre, che per quanto si sforzasse non riusciva a far crescere altro che erbacce. Con uno scatto fulmineo aveva lasciato il quaderno di italiano e aveva fatto cadere a terra tutte le sue penne, ma non era importante: doveva vedere da vicino, capire, toccare.

Intuì che a guidare era suo nonno Arturo dalle urla concitate dei suoi genitori, una brusca accoglienza che superò noncurante, dirigendosi verso quell’insolito pulmino. Una volta messa sulla portiera la mano ancora impiastricciata dall’inchiostro della sua penna cancellabile, gli sembrò di essere finito sott’acqua: le voci arrivavano ovattate, non si poteva distinguere se fossero di gioia o di rabbia.

È che con il nonno era così, lui l’aveva visto poche volte, sempre talmente strano e diverso che faticava a credere fosse il padre di suo padre. 

Il padre (il suo) si chiamava Marco e vestiva costantemente allo stesso modo: una camicia al giorno, secondo una sequenza che si ripeteva identica ogni settimana. Per esempio, il mercoledì era la volta di quella grigio chiaro, così come il venerdì toccava a quella bianca. Lorenzo aveva imparato ad associare lo scorrere del tempo a quello delle tenui scelte cromatiche del padre, un uomo dal viso dolce, ma indurito dalla fatica: gli sembrava rientrasse sempre un po’ più stanco del giorno precedente.

«Ma perché non le metti colorate?», gli aveva chiesto una volta, senza nascondere nell’intonazione la sua ingenuità di bambino. Marco gli aveva spiegato che un ufficio non è un posto per i colori, che ai grandi non è più concesso il lusso di giocare con gli arcobaleni, e che quando sarebbe cresciuto lo avrebbe capito anche lui. 

Eppure, il padre (di suo padre) con gli arcobaleni ci giocava, le rare volte in cui l’aveva visto sfoggiava t-shirt variopinte, come quella che aveva anche nell’unica foto di famiglia nella quale fosse presente. La mamma l’aveva messa in una cornice di legno, di quelle scure che non piacciono a nessuno, ma che per noia si conservano convincendosi che tutto sommato non siano poi così bruttine.

Anna l’aveva posizionata sulla più alta delle mensole presenti nel salone, in modo da evitare di capitarci davanti, permettendosi tuttavia di sentirsi assolta, perdonata: in fondo lei una foto della famiglia ce l’aveva, anche se non la guardava mai, mica come Arturo che ormai a casa da quando era morta la moglie non ci stava più, e se ne andava in giro per il mondo con i soldi di una pensione che avrebbe potuto mettere da parte non per lei, non per il figlio, ma almeno per il nipote.

Si parlava sempre di questo quelle poche volte in cui Arturo era di rientro.

Aveva assolto così male al suo compito di padre che lo stesso Marco lo chiamava il vagabondo, un nome in codice che, una volta diventati genitori, lui e Anna avevano usato per sostituire il più familiare nonno. Arturo non era stato un padre, pertanto non meritava nemmeno il titolo successivo, ed era stato inutilmente punito con un epiteto che per lui era segno di orgoglio, perché gli ricordava che adesso, dopo più di cinquant’anni di vita passati a fare quello che doveva, poteva fare quello che voleva

Aveva cominciato quando Linda era morta – pure il dottore l’aveva detto che era stata una reazione tutto sommato normale quella di voler lasciare la città e allontanarsi dal loro appartamento. Tra i vari modi di affrontare la morte, Arturo aveva scelto la strada più semplice, quella di chi fugge e non torna, di chi non vuole dimenticare, ma decide di cercare la gioia altrove, in posti lontani e diversi – di quelli che si sognavano in coppia da ragazzini, quando i soldi erano pochi e l’amore era tanto da consentire di pronunciare mete sconsiderate.

«Andremo in Giappone» le aveva detto, anzi, promesso, giurato e ripetuto all’infinito, però poi il lavoro suo, poi quello di lei, poi il primo figlio, di nuovo il lavoro, la figlia e poi d’un colpo era arrivata la vecchiaia, il crepuscolo del desiderio, l’accettazione della vita semplice, la filastrocca della menzogna: «va bene così, non c’è bisogno, basta qui».

Che qui non bastasse lo sapevano entrambi. 

Arturo, infine, era arrivato in Giappone – da solo – e aveva scalato il Koya, aveva sentito il cuore fermarsi per un istante e dopo ripartire affaticato, lento. Aveva lanciato uno sguardo rapido all’erba, sfilandosi le scarpe e i calzini perché lui sapeva che Linda era lì, glielo aveva detto sin da ragazzina di non guardare il cielo che «è troppo lontano» e di  abbassare la testa, così che quando lei sarebbe tornata alla terra «l’erba avrebbe potuto accarezzarlo».

Lui si era seduto e se ne era stato per un po’ così, intrecciando le dita ai fili sottili cosparsi di rugiada.

Una volta tornato da quel viaggio ce ne erano stati molti altri, intervallati da fugaci rientri a casa, sporadici momenti in cui Arturo trovava la volontà di tornare nel suo vecchio appartamento, nel momento in cui l’erba non bastava più e sentiva il bisogno di rivedere gli oggetti che avevano scandito la sua quotidianità.

L’antico tappeto persiano, che per fortuna Marco aveva deciso di tenere nel salotto, la sua poltrona di pelle usurata, il bonsai di Linda – del quale ora era Anna a prendersi cura. Alla morte della moglie aveva pregato Marco di trasferirsi in quel grande appartamento, un po’ perché loro stavano per avere un figlio, insomma, c’è un giardino, avrà bisogno di stare all’aperto, «anche tu ci giocavi sempre giù» aveva insistito, un po’ perché gli oggetti hanno senso di esistere solo in base al loro uso e quindi quando restano soli, senza proprietario, fanno una gran pena.

Lui senza Linda se la sarebbe cavata, che tanto lei era nell’erba e non l’avrebbe mai lasciato, eppure quel tappeto persiano – che lei aveva voluto così tanto e per il quale avevano speso un sacco di soldi – ecco, quel tappeto «non posso proprio buttarlo» aveva spiegato a Marco gesticolando. La discussione era durata a lungo, soprattutto quando al «dove andrai tu?» di Marco, lui aveva spiegato che di stare a casa non ne voleva più sapere, che ad Arezzo ci era stato tutta la vita ed era arrivato il momento di andare in giro, di vedere il mondo, poco importava se era appena stato dall’altra parte del globo, c’erano ancora così tanti posti da scoprire, così tanta erba sulla quale passeggiare a piedi nudi.

Era diventato, come avrebbero poi detto Marco e Anna, un vagabondo. 

In quel nonno Lorenzo vedeva una figura misteriosa, della quale sapeva poco e niente, che di tanto in tanto riappariva come una meteora, e allora sognava di essere attirato dalle sue ardenti scie, ma Arturo svaniva sempre troppo in fretta, il tempo di desiderare ‘portami con te’ e non c’era più, lasciando solo la speranza del suo ritorno. 

Il 23 settembre 2021 Lorenzo aveva smesso di credere che il nonno sarebbe tornato. Lo aveva raggiunto, piuttosto che l’uomo alto, dalla barba curata e gli occhiali da sole infilati nella tasca della  maglietta colorata, la notizia della sua morte, assieme al suo testamento.  Allora, Marco e Anna avevano appreso privi di stupore che la casa sarebbe passata a loro, con medio stupore che Arturo aveva conservato dei piccoli souvenir inusuali di ogni viaggio (una campana tibetana – ormai dal metallo opaco, un’inquietante collezione di matrioske e una teiera d’argento egiziana), ed erano rimasti sbigottiti nell’apprendere che aveva deciso di lasciare il suo adorato Volkswagen T2 turchese a Lorenzo.

Anna aveva sentito il suo corpo mingherlino attraversato da un brivido immaginando un Lorenzo vagabondo come il nonno, restio ad affetti fissi, nauseato dall’idea di abitare in una città sola e di vivere a mo’ di una persona normale, tipo lei e Marco. I due si erano domandati a cosa gli sarebbe mai potuto servire, mica poteva andare in azienda con quel coso, no, lui aveva la sua macchina e avrebbe continuato a usare quella, come tutte le persone per bene, quelle rispettabili, quelle che a trent’anni dopo tanto studio riescono a raggiungere una posizione invidiabile, la stabilità, la promessa della sicurezza, l’invidia degli altri. 

Lorenzo cinque giorni a settimana indossava una camicia –  la preferiva bianca, non aveva ereditato il vizio del padre – guidava fino al suo ufficio, entrava salutando tutti con un cenno del capo e arrivava nel suo studio. Aveva una sedia di pelle nera, che un po’ gli ricordava la poltrona di pelle di Arturo, sulla quale, ora che era andato in pensione, Marco passava le giornate a vedere la TV. A volte l’idea di diventare come suo padre, di scivolare nella semplicità dell’immobilismo, domato solo dal movimento della mano che regge il telecomando, lo intimidiva.

Nel suo studio, durante la pausa pranzo, spesso si domandava se la vita fosse davvero tutta lì, compresa tra carte da gestire e programmi da guardare, se il padre fosse contento di essere passato dalla sedia di pelle alla poltrona di Arturo. Tra un boccone e l’altro di piadina integrale continuava a ragionare, masticava pensando che alla fine Arturo quella poltrona non l’aveva quasi mai usata, che non appena era arrivata la pensione, la nonna era morta e lui si era messo in viaggio, lasciandola vuota, intatta. Deglutiva e si chiedeva se lui avrebbe mai avuto il coraggio di partire, se l’avrebbe fatto all’improvviso o dopo la perdita di qualcuno, proprio come aveva fatto Arturo.

Adesso che disponeva del mezzo per partire, ne era sicuro. Il coraggio non ce l’aveva.

È per questo che ora Lorenzo si trova alla concessionaria, nel tentativo di vendere il van del nonno. 

Si era torturato per settimane, senza capire perché l’avesse lasciato a suo nipote, con il quale aveva scambiato così poche parole quando si erano incrociati. Aveva passato il weekend a ripulirlo, aveva tenuto il paio di libri che erano ancora dentro, assieme alla macchina fotografica di Arturo e infine si era deciso a darlo via – qualcun altro avrebbe avuto il coraggio di partire e andare altrove, non lui, figlio di suo padre, incapace di pensare in grande come il vagabondo, ma campione dello schivare rischi e situazioni non calcolate prima con estrema precisione.  

«Allora quanto?», ripete Giacomo, ha una camicia bianca come quella che lui usa per andare a lavoro, e Lorenzo  continua a sentire quello strano e inusuale groppo alla gola, a far saltellare lo sguardo da quel tessuto splendente e inamidato alla vernice opaca, che gli sembra ancora bella come il mare. La sera prima aveva fatto l’errore di sfogliare quei libri, di soffermarsi sulle annotazioni lasciate dal vagabondo, con la grafia perfetta di chi aveva passato la sua adolescenza in collegio, e aveva letto i suoi pensieri, sentendolo per la prima volta vicino, nonno.

Sul margine sinistro di pagina 3 aveva annotato: c’è di più.

Tre parole che avevano scosso Lorenzo, che l’avevano fatto vacillare per un attimo. Era bastato chiudere il libro per ritornare sulla strada giusta, su quella ragionata, delle scelte logiche: domani l’avrebbe venduto – ormai ‘sti cosi valgono un sacco e avrebbe messo da parte i soldi. 

Così Lorenzo ripercorre il ragionamento della sera precedente e prima di tentennare ancora spara la cifra, Giacomo sorride, fa un cenno col capo, è fatta, il patto è sancito dalla stretta di mano dettata dalla cortesia, concluso dalla ricevuta del bonifico che Lorenzo stringe tra le mani quando esce. Si accende una sigaretta, un lusso che si concede solo nei momenti di stress, per esempio durante le chiamate del signor Mariani, il più esigente dei suoi clienti. Questa volta però non c’è nessuna voce nasale dall’altro capo del telefono, c’è la voce profonda, morbida, tonda, di Arturo, che gli ripete «c’è di più», mentre lui si siede sulla panchina del parco sotto casa.

Espira e alza lo sguardo, si incanta a vedere un uccellino che cauto si muove sul ramo appena imbrunito di un pino. La testolina rossa gli permette di riconoscere un cardellino, che segue con gli occhi curiosi e attenti. Lo vede farsi coraggio e saltellare da un ramo all’altro perché ancora non sa volare, poi si lancia, fa un tentativo e le sue zampe trovano l’appiglio solido di un ramo.

Lorenzo si sente come lui, inesperto, si muove con ali inutilizzate, ma ancora per poco. Sorride e stringe la carta tra le mani. ‘C’è di più’, c’è un mondo da scoprire, erba da calpestare, tanta strada da fare – anche a piedi.

tutte le fotografie di Isabel Lo Coco.

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