In tinello manca l’aria

un racconto di Giulio Natali.

Tiziana si fa viva cinque giorni dopo che sono uscito dalla galera. Non ci vediamo da un paio d’anni e se ne frega di sapere come sto. Saluta mamma, si abbracciano, poi mi guarda.

«Devi aiutarmi con Billy.» dice mia sorella.

È il pastore di Brie che ha regalato al figlio quando era ancora bambino. Da cucciolo giocava con una presina di stoffa, di quelle che si usano per non scottarsi con le pentole. La teneva tra i denti muovendo il muso da destra a sinistra e sembrava dire “no” a tutti quelli che cercavano di portargliela via.

Mentre mi parla, Tiziana ha il viso marcato da rughe così profonde che sembra sia stata lei – e non io – a essersi fatta due anni al fresco.

«Dobbiamo sopprimerlo.» le sue labbra si fanno più sottili per la tensione.
«Sei pazza! Ma che cazzo dici?» guardo esterrefatto prima lei e poi mamma, che non fa una piega.
«Il veterinario è venuto a casa e lo ha visitato. Billy è aggressivo con chiunque gli capiti a tiro. Un inferno.»

Mi spiega che per i diciotto anni Matteo ha invitato gente a casa. Due amici hanno alzato il gomito e si sono messi a vagare per le stanze alla ricerca di qualcosa che li divertisse. Sul ripiano della credenza hanno visto un accendino, lì vicino c’era Billy che dormiva appallottolato in una cesta. Gli hanno bruciato la coda. Tiziana ha sentito il cane emettere un guaito acutissimo e ha spento subito la fiamma.
«I calmanti non bastano. Inutile.»

La guardo in silenzio.

«Devi portarlo tu.» continua.
«Non c’è proprio un’altra soluzione?»

Me lo ricordo, Billy, a farmi le feste quando passavo a trovare Tiziana, il marito e il piccolo Matteo. Se era a pisciare in cortile, appena sentiva il rumore della portiera del furgone rizzava le orecchie. Fischiavo per confermargli che ero davvero io e lui veniva incontro correndo. Con le zampe anteriori lasciava una piccola impronta marrone sui pantaloni, ogni mese più in alto fino a quando ha smesso di crescere. Abbaiava di gioia, poi girava intorno alle mie gambe vorticosamente come se danzasse. Gli occhi erano coperti da una frangetta che arrivava a toccare la punta del naso e li immaginavo lucidi per la contentezza di vedermi. 

«Non hai sentito quello che ho detto? È aggressivo.»
«E allora? Perché devo pensarci proprio io?»
«Può salire solo sul furgone. In auto è ingestibile.»

Negli ultimi due anni mi è capitato di pensare come sarebbe stato rivedere Billy. Già lo vedevo finire a pancia in su per farsi accarezzare.
Invece lo porterò a morire. D’altronde mia sorella è venuta a salutarmi solo per questo.

«Quand’è l’appuntamento dal veterinario?»
«Domani mattina.»

La guardo alzando le sopracciglia. Mi sembra tutto paradossale.

«Te la ricordi Sofia?» la voce di Tiziana segnala che si sta agitando. Le pupille si dilatano e con lo sguardo mi disprezza ancora più del consueto.
«No.»
«La figlia dei Martini, quelli che abitano vicino alla macelleria.»
«Beh?»
«Da quando ha iniziato a camminare infila la mano nella ringhiera del cancello per accarezzare Billy sulla nuca. La settimana scorsa le ha tranciato di netto il mignolo con un morso.»
Non rispondo.
«E potrei continuare, ringhia al postino… al tizio che viene a leggere il contatore del gas… persino a me.»

Non è del tutto impazzito, allora, penso sarcastico, mentre mi alzo dal vecchio dondolo e comincio a camminare lentamente sotto il portico. Guardo mamma filare in cucina, il suono della lavastoviglie segnala che i piatti sono puliti. Mi porto le mani in tasca, di scene raccapriccianti e ingiuste in carcere ne ho viste, questa non dovrebbe colpirmi o sorprendermi. Eppure. 

«Prima voglio vedere come si comporta con me.»
«Che razza di idee ti vengono?»
«Magari, se riesco a gestirlo, potrebbe restare a vivere qui, con me e mamma.»
«Togliti dalla testa di far vivere mamma con l’angoscia di essere aggredita.»

La notte non riesco a prendere sonno e non è colpa dell’afa e delle cicale che continuano a frinire.

Istintivamente con la mano mi tocco sopra il ginocchio, nel punto dove Billy arrivava con le zampe. Non avrei modo di occuparmi di lui, devo trovare un lavoro e in banca non ho un euro per affittare un buco. Non ho altra scelta che quella di restare con mamma, che quand’ero dentro si è fatta viva soltanto per gli auguri di compleanno e con due giorni di ritardo. Dormo giusto tre ore, poi mi sveglio e faccio le cose di sempre. Mi rado, mi lavo le ascelle, faccio il bidet. Mi pettino, mi vesto, mi guardo di nuovo allo specchio.

Esattamente come ho fatto negli ultimi due anni.

Faccio colazione con mamma, che dopo sciacqua la schiuma di cappuccino rimasta nella tazza, ma l’unica a bisbigliare qualcosa è una mosca con il suo ronzio.  Un tempo la sua mano rugosa sfiorava la mia prima che mi alzassi da tavola. “Ci vediamo a pranzo”, quasi supplicava, e quando uscivo di casa senza baciarla in fronte la ritrovavo con il broncio al rientro. Ora fanno rumore soltanto le lancette dell’orologio a muro, lei è di spalle, intenta a scopare per terra e manco si accorge della porta che si richiude. Non serve dirle “ciao”, monto sul furgone, verso casa di Tiziana. Ingrano la seconda e la chiamo.

«È già con museruola e guinzaglio.»
«Liberalo e mandalo in cortile, poi lascialo a me.»
«Tu sei pazzo.»
«Che ti frega? Voglio fare un ultimo tentativo.»

Non sono religioso, ma per un attimo spero di travestirmi da San Francesco che ammansisce il lupo.

Non guido da un sacco di tempo, ha ragione chi sostiene che una volta imparato non si dimentica più, ma sto molto attento ai limiti di velocità. L’ultima volta che li ho superati, la polizia mi ha fermato e ha beccato la roba nascosta sul retro. Così i sei chilometri che mi dividono dal cane sembrano un’eternità, e la testa rimugina. Forse Billy si è stufato di rispondere ai comandi di mia sorella e mio nipote. Magari ha deciso di fingersi pazzo perché lo mollino in mezzo a una strada. Poi lo vedo nel cortile che annusa i sassolini di ghiaia. La coda mozza si agita come al solito. Il colore del pelo è rimasto lo stesso, si direbbe il cane di sempre.

È la reazione al mio fischio a essere diversa. Non corre, procede molto lentamente, guardingo, quasi ciondolando con la bocca aperta, la lingua a penzoloni e il respiro affannoso. 

Avevo ragione, mi dico, non ci sanno fare con questo cane, perché tutto pare tranne che aggressivo. Arrivato a mezzo metro da me, emette un guaito simile a quelli che faceva quando il piccolo Matteo gli pestava le zampe per dispetto.
Allungo la mano per accarezzargli la nuca, mi lascia fare. Lo guardo e gli sorrido, poi alzo gli occhi e vedo Tiziana affacciata alla finestra che segue la scena con occhi perplessi.

«È tutto ok.» tolgo la mano dal collo di Billy per farle un cenno di saluto. 

In quell’attimo il cane ringhia, poi si butta a capofitto verso di me e con i denti stringe la coscia destra, poco sopra al punto in cui mi sporcava di terra. Al dolore ci sono abituato e non voglio attirare l’attenzione di tutto il condominio, però il morso lo avverto bene. Lo allontano con un calcio istintivo. Zigzaga quasi avesse perso la vista, poi si rintana sotto la siepe dove andava a recuperare il pezzetto di legno che gli ho lanciato mille volte quando ci vedevamo. Resta lì, come un soldato rientrato in trincea dopo un agguato fallito, pieno di ferite nel corpo e nell’anima. Mi fissa, ringhia ancora per un attimo, con le unghie delle zampe davanti sembra scavare una piccola buca, poi arretra continuando a guardarmi e dalle foglie spunta solo il muso stordito.

Respiro profondamente e do un pugno a uno dei finestrini del furgone, come se così controllassi meglio le mani che tremano. Lo fisso anche io fino a quando lui, consapevole della sconfitta, abbassa per primo lo sguardo. Mia sorella arriva con guinzaglio e museruola.

Anni fa ho fatto rimuovere i sedili posteriori per trasportare la merce più comodamente, adesso quello spazio serve per l’ultimo viaggio del cane che non vedevo l’ora di accarezzare mentre ero dentro. Lo osservo dallo specchietto retrovisore, sono tentato di deviare verso il mare per fargli il bagno come un tempo, quasi che immergendolo in acqua lo esorcizzassi. Si abbassa come se giocasse, poi scatta in avanti sbattendo contro i lati del furgone. Tiro dritto, non ha vie di scampo. Tenta di togliere la museruola e ruota su se stesso con frenesia. Sembra in crisi epilettica. Mi piacerebbe capirne di più, ma il veterinario non ha tempo di stare a sentirmi, oggi è il giorno dell’eutanasia e prima di pranzo deve togliere la vita ad altri tre cani.

«Vuole assistere?» mi chiede.
«No.»
«Di solito subito dopo l’iniezione cercano il padrone.»
«Io non sono il padrone.» sono un amico, vorrei aggiungere. E sono l’unico in famiglia a guidare il furgone.
Pochi minuti ed è tutto finito, prima l’anestesia lo ha stordito, poi il Tanax nelle vene ha fatto il resto.

Chiamo Tiziana per sapere dove portare il corpo.

«Sono in riunione, è urgente?» risponde.
«Fatto.»
«Fatto cosa?»
«Billy.»
«Ah, già.»
«Che ne faccio ora?»
«E che vuoi farne? Lascialo al veterinario, lo farà cremare lui.»
«Ho pensato che Matteo volesse seppellirlo. Sono cresciuti insieme.»
«Matteo è grande, con Billy ha smesso di giocare da un pezzo.»

Ha ragione lei, come sempre. Billy ha tenuto compagnia a tutti per tanto tempo, poi è diventato matto e pericoloso. Ora è giusto dimenticarlo e andare avanti. Sono passate le undici, per un attimo credo stia iniziando l’ora d’aria per due mani a carte con gente che non parla italiano ma con cui basta uno sguardo per intendersi. Nel viaggio di ritorno il furgone sa di pelo bagnato, Billy se l’è fatta addosso proprio come me quella volta davanti ai poliziotti. Respiro quel fetore più che posso, è il profumo della libertà.

Rientro a casa, saluto mamma che è davanti ai fornelli.
«Ciao,» risponde senza girarsi. «Tra mezz’ora è pronto.»
Mi piacerebbe un bel piatto di tagliatelle fatte a mano come quand’ero bambino, invece dalla credenza mia madre tira fuori una confezione di rigatoni.

Fa un caldo boia, in tinello manca l’aria. Mi siedo sul dondolo, almeno sotto il portico tira un filo di vento. I vicini stanno caricando le valigie in macchina. Da che ho memoria tornano in Salento, in estate. Inizio a dondolare. Il rumore di un autolavaggio si mescola a quello dei piatti e delle posate che mamma mette a tavola. L’odore di ragù dalla cucina non ha nulla a che vedere con la merda mangiata in prigione. Continuo a dondolare ricordando i pasti in cella, poi all’improvviso mi fermo, atterrito che questi pensieri possano essere chiamati nostalgia.

all pictures by Cinzia Laliscia.

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