La spiona

un racconto di Deborah D’Addetta.

Camillo Scopacasa quel pomeriggio aveva mal di schiena.

Non che fosse una novità per lui: da piccolo, quando l’avevano sradicato dal ventre materno, i medici si erano scambiati una di quelle occhiate cinematografiche che fanno morire il fiato in gola. Gli avevano diagnosticato un’ipercifosi non curabile, cosicché, da quando era riuscito a mettere i piedi a terra, era stato costretto a camminare un po’ chino, la spalla destra appesantita da una gobba a volte discreta, a volte insolente. Quel giorno aveva deciso di fare l’insolente: gli doleva, pulsando, ma lavorare lì dentro lo aiutava a distrarsi dalla pena e dalla solitudine.

Tirò a sé il carrello di plastica verde mela, il suo preferito, quello che l’impresa delle pulizie che aveva vinto l’appalto gli aveva assegnato, marcandolo col suo nome. Sul secchio avevano attaccato un pezzo di scotch di carta e con un pennarello avevano scritto Camilo Scopcasa. Era sbagliato, ma non gli importava granché: era l’unico italiano tra i dipendenti, anzi l’unico napoletano, e se ne sentiva estremamente fiero, tant’è che quando i suoi amici d’infanzia gli scrivevano, prendendolo in giro perché faceva “Camill’o’ pulitone”, lui non si offendeva. 

«Io f-fatico al Louvre, voi invece andate a zappare le p-pummarole!» diceva, inceppandosi un poco.

Il museo era vuoto da qualche tempo, ma la polvere non andava in vacanza e le opere preziose che custodiva andavano coccolate. Così Camillo tornava a lavoro ogni pomeriggio, indossava il grembiule, riempiva il suo secchio di acqua e detersivo industriale alla mandorla e faceva il consueto giro di tutta l’Ala Denon, al primo piano del museo.

Ovviamente conosceva anche tutte le altre, ma quella era la sua preferita.

Da trent’anni spazzava a destra e a manca, con una pignoleria irritante, calpestando sempre gli stessi passi: si occupava prima delle piccole sale nel padiglione dei dipinti spagnoli, proseguiva lungo tutto la galleria color marsala di quelli italiani, per soffermarsi infine nelle sale interne, la 700, 701, la 702 e finalmente la 711, la Salle des États.

Lì, sul fondale di un magnetico blu di Prussia, c’era lei, piccola piccola, chiusa dietro una teca impenetrabile. Camillo la chiamava “la spiona”: ogni volta che doveva spazzare a terra o levare la polvere, che andasse a destra, a sinistra, vicino o in fondo, lei lo osservava, seguendolo insistentemente con quegli occhi beffardi. 

Ne aveva un po’ paura: gli ricordava pericolosamente la sua logopedista, la signora Enzina, una giovane vedova dalla faccia tonda che lo aveva preso in cura quando aveva dieci anni. Anche lei lo osservava con attenzione, infilando lo sguardo tra i suoi denti, punendolo con una bacchetta ogni volta che inciampava sulle lettere.

Ne aveva paura ma, segretamente, ne era anche attratto.

Soprattutto in quei giorni, sfruttando l’enorme fortuna che aveva di stare faccia a faccia solo con lei, la ammirava a lungo, in piedi col suo camice grigio e il suo carrello verde mela, un po’ goffo, un po’ orgoglioso. Si fermava, si appoggiava allo spazzolone e la guardava. Ogni tanto ci parlava anche.

«Oggi mi fa proprio male la spalla» sussurrava, ad esempio.
«Che malinconia q-questo posto vuoto, vero?» aggiungeva.
«Madama, volete un poco di c-caffè?» concludeva.

In realtà, Camillo chiacchierava anche con altre opere: alla “Vergine delle Rocce” solitamente raccontava cosa mangiava a pranzo e a cena, con “La Zattera della Medusa” si lamentava dei suoi acciacchi, alla Nike di Samotracia confidava i suoi racconti d’infanzia e a un paio di grandi dipinti francesi rimproverava che nessuno mai gli rispondesse.

La sua preferita però rimaneva proprio Lei, la spiona.

Quel pomeriggio Camillo entrò in sala tirandosi dietro il suo carrello, e iniziò a spolverare maniacalmente le cornici dei dipinti veneziani del XVI secolo. Gli occhietti dei suoi protagonisti gli sorridevano, piangevano, urlavano, si sbigottivano per sentimenti e sensazioni che lui non conosceva, che non capiva: sapeva solo che li trovava molto belli e che, per permettere anche agli ospiti del museo di trovarli altrettanto belli, doveva pulirli. Inerpicato mezzo storto su una scala, si dedicò alla “Flora” di Bordone, non potendo fare a meno di lanciare qualche occhiata al suo seno scoperto, turgido e immortale, e a quei capelli ramati che sembravano riccioli d’edera.

All’improvviso, mentre i suoi occhi indugiavano sui piccoli capezzoli, Camillo sentì un fischio. Non ci fece molto caso all’inizio, così continuò a spolverare. Qualche secondo dopo ne sentì un altro, un sibilo sottile, acuto. Si voltò di scatto, sospettoso. Aspettò, aspettò, guardandosi intorno, alla ricerca dell’origine di quel rumore. La sala era vuota, proprio come quando era entrato. Per sicurezza scese dalla scala e rimase in attesa. Ed ecco un altro fischio, proveniente dal fondale.

Camillo sbatté le palpebre rugose, scettico, si avvicinò alla piccola teca e si piantò davanti a Lei: aveva la consueta espressione sardonica, quel sorrisino accennato, immobile. Si grattò la testa, dandosi dell’idiota, ma proprio mentre stava per voltarsi e tornare al suo lavoro, quel sorriso si affilò e dalle labbra venne fuori quel suono che poco prima lo aveva distratto.

«Quando pensate di smetterla di attardarvi sulle grazie della mia amica?».

Camillo ebbe un colpo al cuore: sbigottito, corse goffamente fuori dalla sala, nascondendosi dietro la parete dell’ingresso. Sporse la testa, timidamente, guardando il fondale blu: la Gioconda era sempre lì, sempre sorridente. Deglutì un paio di volte, cercando di razionalizzare quell’assurdità, e con un coraggio che non credeva di avere, s’impose di piantarla di immaginare cose che non esistevano. Cauto, però, aspettò qualche altro secondo dietro la parete. Quando fu sicuro di aver sognato tutto, a piccoli passi, rientrò in sala. Si avvicinò nuovamente alla teca, la fronte accigliata, e recuperò il suo carrello che, per qualche ragione, lo faceva sentire più sicuro.

«Allora? Non sono forse degna di una replica da parte vostra?».
Lei parlò di nuovo e Camillo si accucciò a terra come se il soffitto stesse per cascargli addosso, tremando come una foglia. La sua gobba gli lanciò una scarica elettrica lungo tutto il corpo, mozzandogli il respiro.
«Che esseri bizzarri che siete voi uomini» aggiunse quella, con una voce estremamente suadente, «Ancora oggi vi spaventate per il sospiro innocuo di una fanciulla».
Camillo prese un paio di profondi respiri, cercando di calmare prima il dolore alla schiena, poi le palpitazioni al petto. Lei invece, curiosa, inclinò la testa di lato.

«Ora che vi rispondo, siete voi a tacere?» continuò, «Vi sento parlare ai miei amici ogni tanto: Flora soprattutto mi ha confessato che le fate sempre il solletico e che si sente un po’ in imbarazzo davanti a voi».
Camillo sollevò gli occhi finalmente. «F-flora?».
La Gioconda annuì con una lentezza studiata, esperta. «La fanciulla che stavate lavando poco fa: non dovreste indugiare sul suo petto a quel modo, non è gentile».
Camillo arrossì violentemente, confuso più dalla vergogna che dalla sorpresa di ascoltare davvero un dipinto parlare.

«M-mi dispiace assai…però non sono un pervertito io!».

«Certamente no! Ho cinquecento anni e passano tante di quelle persone qui dentro che a forza di ascoltare e ascoltare e ascoltare, ho imparato tutto».
Lui si stancò di stare accartocciato, perciò si sollevò piano, cercando di non fare movimenti inconsulti.
«Vi chiamate Camillo, vero?».
Lui annuì, ancora un po’ stordito.
«E il nome di famiglia?».

«S-scopacasa, Madama».

Lei scoppiò a ridere: le minuscole crepe del legno su cui era dipinta scricchiolarono terribilmente, tanto che dovette smettere subito. Sollevò una mano liscia e paffuta verso le labbra, coprendosele con pudicizia. A Camillo sembrò una specie di sogno: i movimenti lenti, irreali, quel viso che si muoveva ma che, allo stesso tempo, rimaneva comunque immobile. Non capiva come fosse possibile, così diede la colpa prima alle medicine, poi ai troppi caffè e infine alla bistecca che aveva mangiato la sera prima in un bistrot di Montparnasse: sul momento si era accorto che aveva un sapore curioso, ma aveva così fame che non ci aveva badato. Il vino poi aveva fatto il resto.

«Vi chiedo perdono» disse lei, «Non sono più abituata alle buone maniere».
Camillo cercò di raddrizzarsi, come se facendolo volesse acquisire una dignità che sentiva necessaria davanti a Lei.
«Mi pare un bell’appellativo, adatto al vostro offizio» riprese, «Ai miei tempi non era inusuale riconoscere le persone tramite il proprio mestiere».
«M-ma io non ho capito una cosa… perché parlate?».

Il viso della Gioconda sembrò rattristirsi. «Perché non dovrei?».
«Perché siete un dipinto?».
«Ma mi sento così sola qui. Ed è sempre freddo».
«È per la vostra sicurezza, Madama. La teca serve p-per conservarvi meglio».
«Sono forse una sardina io?» domandò, d’improvviso irritata, «Se mastro Da Vinci mi avesse detto che avrei dovuto fare la bella statuina per l’eternità, non avrei mai accettato di posare per lui!».

Camillo non seppe se sorridere o meno: ne risultò una smorfia buffa, involontariamente canzonatoria.
«Ah! Ridete pure di me! Seppur infermo e vecchio voi potete andare in giro per il mondo! Io invece sono costretta qui, condannata a vederlo scorrere sotto il mio naso, senza mai poter scambiare una parola, senza mai poter toccare alcuno!».

I suoi occhi burrosi si strinsero pianissimo e gli angoli della bocca si abbassarono. Camillo inorridì, convinto che si sarebbe messa a piangere da un momento all’altro. Poi, d’improvviso, si ricordò delle telecamere di sicurezza: imbambolato com’era davanti al dipinto da dieci minuti, era certo di star destando dei sospetti. Allora afferrò lo spazzolone, lo immerse nell’acqua e fece finta di lavare a terra. Intanto dalla teca poteva sentire dei sospiri sommessi.

Quel suono gli fece stringere il cuore.

«Non potete sapere cosa darei per uscire di qui» riprese Lei, lo sguardo basso, «Delle volte mi sento soffocare da tutta questa attenzione».
Lo spazzolone bagnato portò Camillo ai fianchi della teca, vicinissimo alla balaustra protettiva.
«Non siete contenta? È perché siete bellissima. Molte persone oggi pagano per essere bellissime».

«Sì» convenne Lei, quasi timida, «Mastro da Vinci me lo diceva sempre».
«Se mi posso permettere, per me, siete la più bella di tutte».
Le guance della Gioconda presero fuoco: il colorito pallido della sua pelle si tinse di vergogna e imbarazzo, tanto che la Camillo temette un danno irreparabile.
«Ma cosa dite? Ho la testa tonda come un uovo, il colorito cereo, non ho le sopracciglia…e ho sentito dire ad una guida turistica che forse sono affetta da…tiroidismo? Di cosa si tratta? Di una nuova infermità dei tempi moderni?».

Lui conosceva l’origine di quella storia: qualche anno prima, medici e specialisti da tutto il mondo, osservando il dipinto, si erano cimentati nell’analisi delle possibili malattie di cui poteva essere stata affetta in vita. Ne avevano dedotto che probabilmente aveva sofferto di ipotiroidismo, arteriosclerosi e varie altre sindromi di cui non sapeva niente.
«Io sono ignorante come voi, Madama. Conosco sono una malattia: quella che tengo io».

Lei sollevò le pupille acquose al cielo, poi sospirò.

Camillo intanto mollò lo spazzolone e decise di spolverare la balaustra davanti alla teca, così da non dare troppo nell’occhio.
«Si può sapere che avete?» le chiese.
Il suo viso delicato si mosse, distendendosi lievemente.
«Preferirei essere voi piuttosto che restarmene qui con le mani conserte».
«Me?» esclamò Camillo, «Con questa brutta gobba?».

«La mia amica di Milo, forse la conoscete, non ha le braccia, vero?» ribatté dolcemente, «Forse vi appare meno bella per questo? Non sarebbe lei se ce le avesse».
«Io non sarei bello nemmeno senza gobba».
«Ma avete due gambe e io quelle non le posseggo».
«E come possiamo risolvere questo problema?».

Le labbra della Gioconda si aprirono in un sorriso splendente, senza denti.

«Vi ricordate quando mi hanno rapita?» chiese, su di giri, «Oh, fu così eccitante! Non uscivo da queste pareti polverose da così tanto tempo! Senza offesa per il vostro lavoro».
«Nel 1911? Non ero ancora impiegato qui, Madama».
«Fu un’avventura così inebriante! Messer Peruggia uscì dal museo a piedi e mi celò sotto il suo cappotto! Quanto ho riso in quegli istanti. Lo sapevate che, all’epoca, le uniche misure di sicurezza adottate dal museo fossero delle guardie ammaestrate all’arte del judo? Oh, che stramberia che era questa!».

«Avventura? Quel delinquente ha commesso un crimine!».
«Non siate così severo! Non aveva intenzione di fare nulla di male» protestò, «I criminali sono altri… come quell’uomo che mi gettò dell’acido addosso…è stato molto doloroso e non auguro a nessuno quel patimento».
«V-vi posso assicurare che le cose nel frattempo non è che sono migliorate qua fuori».

Lei fece finta di non aver sentito.

«Voi che siete un buon amico…perché non mi portate a fare una passeggiata? Mi piacerebbe così tanto vedere com’è diventato il mondo fuori da questa sala! Ah! E sarebbe delizioso passare a salutare Sant’Anna e il bambino con l’agnellino! Lo sapevate che ho incontrato Mastro Da Vinci proprio mentre lavorava alla bozza di quel dipinto?».
Camillo per poco non si strozzò con la sua stessa saliva.
«Una p-passeggiata? Madama, se provassi a rapirvi come Peruggia mi sbatterebbero in galera per tutta la vita!».

«Ma vi siete offerto voi di aiutarmi! Non avete forse detto come possiamo risolvere questo problema?».
«Sì m-ma certe cose si dicono tanto per dire…».
«Oh…».

Quel sospiro afflitto fece sentire Camillo terribilmente in colpa. Si allontanò dalla balaustra, cercando di mettere a tacere il vecchio dolore che ancora aveva alla schiena e quello nuovo che gli aveva ghermito il petto. Riprese il suo secchio verde mela e prese a trascinarlo intorno a tutta la sala, evitando gli sguardi dei protagonisti dei dipinti. Gli sembrò che lo stessero osservando con più severità, con più insistenza. Intanto, mentre spolverava freneticamente, riusciva ancora a sentire i gemiti commossi della Gioconda. Quando per puro caso si ritrovò di nuovo sotto il quadro di “Flora”, quella si coprì il seno e voltò il viso, indignata. Pian piano, anche tutti gli altri la seguirono, negando a Camillo il beneficio del dubbio.

Allora prese coraggio e riportò lo sguardo su di Lei.

Inorridì quando si accorse che dai suoi occhi cadevano lacrime copiose, lacrime che stavano inzuppando il legno e la pittura. Cercando di non correre come aveva fatto prima, si precipitò di nuovo alla teca.
«Madama, per carità, s-smettetela di piangere!».
«Ma mi sento così sola e misera» rispose, catturando una lacrima morente con l’indice destro, «Se solo potessi uscire, anche per un giorno soltanto…».
«Ma è impossibile…non posso rubarvi…».
«Allora datemi in prestito il vostro corpo!».

Camillo sbatté le palpebre, poi deglutì. «Il mio c-corpo?».
Gli occhi della Gioconda si illuminarono. «Sì! Solo per un giorno, ve ne prego!».
«M-ma come?».
«Vi basta toccarmi!».
«Ma s-suoneranno tutti gli allarmi del museo!».
«Direte che stavate spolverando!».
«Voi siete pazza, Madama».
«Anche voi che state parlando con un dipinto lo siete, Mastro Scopacasa!».
Camillo ammutolì. La gobba gli mandò l’ennesima stilettata acuta, tanto acuta che dovette smettere di parlare per qualche istante.
«Non vi sentite bene?» chiese Lei.

Camillo alzò una mano, poi si appoggiò al carrello.

Dal suo walkie talkie venne fuori una voce robotica che gli chiedeva se fosse tutto a posto. Lui si voltò verso la telecamera di sicurezza e sollevò un pollice. Quella fu una buona e una cattiva notizia: qualcuno si era preoccupato per lui ma, al tempo stesso, lo stava osservando.

«V-vedete, Madama? Non posso avvicinarmi a voi».

«Potreste far finta di cadere…».
«E se non funziona?».
«Funzionerà. Io verrò dentro di voi e voi verrete dentro di me. Così io sarò libera di uscire e voi dovrete solo pazientare un giorno o due chiuso qui nella teca».
«Non credo vi piacerà andare in giro in questo sacco di patate martoriato».
«Un sacco di patate libero».

«Sentirete dolori qui» disse, indicando la gobba.
«Una volta mi hanno tirato addosso un sasso, e anche una torta di panna. Posso sopportare un po’ di mal di schiena».
«E come f-facciamo a tornare indietro?».
«L’avete detto voi che le persone vogliono essere bellissime. Non volete essere come me, almeno per un po’? Ammirato e venerato da tutti? Io al contrario, vorrei essere nessuno, vorrei essere invisibile».

Camillo rifletté a lungo su quelle parole. Ripensò ai suoi amici che lo prendevano in giro, chiamandolo “Camill’o’ pulitone”. Gli cadde perciò l’occhio sul carrello, su quell’etichetta di scotch di carta su cui c’era il nome sbagliato. Non gli importava granché, se lo ripeteva da trent’anni. Non aveva mai nemmeno pensato di sostituirlo. In quel momento però gli sembrò un’ingiustizia.
«Tornerete?» le chiese.

Lei sorrise, radiosa.

«Tornerò e vi toccherò e tutto sarà come se niente fosse successo. Saremo solo diversi, io e voi, ma nessuno ci farà mai caso».
«P-promesso?».
«Avete la mia parola di gentildonna».

Camillo prese un profondo respiro. Dopo un momento, decise di agire: afferrò lo spazzolone, si mise a lavare a terra e fece finta di inciamparci contro. Il suo corpo storto superò la balaustra e tutti gli allarmi della sala presero a strillare freneticamente. Poco prima di cadere rovinosamente faccia a terra, Camillo riuscì a toccare la teca con un pollice.

Il walkie talkie impazzì e non tardarono ad arrivare gli addetti alla sicurezza. Quando lo sollevarono dalle ascelle non mancò di cogliere un’offesa o due e qualche aspro rimprovero. Tutti poi, accertatosi che fosse intero e non curandosi più di lui, presero ad esaminare freneticamente la teca e la sua integrità. La Gioconda sembrava a posto: stesso sorriso, stessa posa, lastra di vetro intatta. Rimasero davanti a Lei per un buon quarto d’ora, esaminandone ogni centimetro. Camillo, dal canto suo, si allontanò, trascinandosi appresso il carrello verde mela. Camminava curvo, come sempre, ma un po’ più svelto. Si scusò umilmente per l’accaduto e salutò le guardie. Poco prima di uscire dalla sala, si voltò verso il dipinto. Sollevò una mano a mo’ di saluto, poi sorrise. E in quel sorriso c’era una dolcezza e un fascino antichi che non gli erano mai appartenuti.

Quando fece ritorno, una settimana dopo, cadde di nuovo. Quel secondo incidente lo costrinse ad essere convocato negli uffici amministrativi del direttore che gli fece il terzo grado. Fu anche quasi licenziato. Dopo un’ora di interrogatorio uscì indenne dalla stanza, con la promessa di stare molto più attento. Lui, di rimando, chiese che l’impresa di pulizie scrivesse correttamente il suo nome nel database. E sullo scotch di carta del suo carrello verde mela.

all pictures by David Paige.

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