ἔκϕρασις pornologiche #3

una serie di Sibilla.

Il marmo di un porticato, bianco, accecante, vuoto.

L’abbraccio solenne di un chiostro. Una fibra di luce si avvolge materno attorno al corpo pallido di una colonna. Appoggiata alla colonna una bicicletta. Solo la vecchia ferraglia urbana può rovinare la poesia di un luogo così sacro: e così è.

Frammentata nel secondo che scandisce la colonna d’un porticato, come la tacca di un orologio.

Sono piccola, infinitamente piccola. Anche rispetto alla stretta del chiostro. Corridoi d’erba verde come fiumi di sangue vivo, cammino piano, con passo leggero. Non sono che una bambina incastrata nel corpo di una ventenne.

Torno bambina e cammino con un piede davanti all’altro sui corridori d’erba del chiostro bianchissimo, attenta a non uscire fuori, come se al di là dei corridoi d’erba ci fosse il vuoto: e così è. Al di fuori ci sono i passi non altrettanto leggeri di altre venti o venticinque anime. Studenti e impiegati.

Tra di loro forse si nasconde Dio. Si insinua tra le anime di questo dannato chiostro come un sottile filo di fumo d’incenso. Ora basta. Cammino e penso a me stessa. Non sono che una bambina.

Il mio percorso mi porta alla fine del chiostro, all’ingresso: entro e non vedo le panche di legno, non sento l’odore di polvere e delle candele appena accese.

Questa non è una chiesa.

C’è un corridoio, una corsia infinita e sterile di almeno centomila chilometri nei miei occhi verdi e puerili che percorro così leggera che mi sembra quasi di volare. E poi arrivo: so di essere arrivata perché lo vedo.

Freddo, plumbeo, arreso.

Il cadavere di Cristo davanti ai miei occhi; alle mie spalle, una piccola donna cupa, silenziosa.

La morte ferisce le mie pupille e riacquisto tutti i miei anni. E forse qualcuno in più. Ventuno anni improvvisamente pesano come due vite. I capelli biondi e morti mi sfiorano il collo, e io mi inginocchio. Mi inginocchio e perdo la mia innocenza.

La morte di Cristo è la mia morte.

Le sue mani speranzose e nerborute stringono il sudario, le mani di sua madre e dei suoi cari cercano il suo ultimo respiro. E io mi sono inginocchiata di fronte al Cristo morto, e le mie mani le porto giunte al seno in preghiera, ma non prego. Non prego che il suo ultimo respiro possa redimere i peccati degli immorali, non prego che le lacrime caste di sua madre lavino il sudiciume dalle anime di chi non cammina leggero. Mi inginocchio in lacrime davanti all’infinita dolcezza della morte, davanti alla mano che si aggrappa languida al lenzuolo, davanti all’espressione di sofferenza di Cristo, ma è una sofferenza soffusa, rabbonita dalla sincerità del sollievo; e mi inginocchio davanti alle stigmate, alle possibilità infinite che crea una ferita aperta.

Resto in ginocchio in piena devozione e non prego. Forse l’ho trovato Dio, alla fine, nel dolore. Nella devozione totale verso il dolore. O forse Dio è nell’attimo che precede la consapevolezza del dolore, che precede l’accendersi di quella scintilla. O forse è nella disperazione delle mani di Cristo, o negli occhi di chi spera che la sua morte sia servita a qualcosa, finalmente.

La parola fine si riempie di sfumature, di calore, del fuoco famelico della fede.

Osservo. Ancora passi pesanti intorno a me, ancora quella donna bruna che mi scruta. Mi protegge. Coprirà le mie spalle chine sulla carcassa di Cristo con quel ridicolo maglione verde, avvolgendo il misticismo surreale del momento di una tiepida familiarità.

Mi rialzo e percorro a ritroso il corridoio, ormai breve nei miei occhi adulti. Il chiostro non è più pallido come la pelle di una qualche Venere: è di un grigio spento, il grigiore malinconico, minaccioso e rassicurante della mia amata Torino, con la punta delle dita sfioro le colonne, sono di pietra, grezza, ruvida, carnale, niente a che vedere con la morbidezza serica del marmo.

Mi volto verso la donna bruna che sta sempre alle mie spalle. Mi sorride. Questo è il mondo che lei ha creato per me.

all pictures by Michael Gessner.

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