Anche Zia Dot va fast and free

un’intervista di Giulio Frangioni.

Giovedì 24 febbraio è uscito, per la casa editrice Fandango, il primo romanzo del nostro Riccardo D’Aquila.

Si intitola Zia Dot ed è una storia di amicizia ambientata nei deserti dell’Arizona. Riccardo, che per STC aveva scritto il toccante racconto “Una gabbia più grande”, è contentissimo della piega che hanno preso gli eventi. In questi mesi ci siamo sentiti spesso, su WhatsApp, mi ha dato consigli e raccontato la sua esperienza. Quando Zia Dot è uscito, io ero in Polonia e l’unico motivo per cui non vedevo l’ora di tornare in Italia era poter stringere quel libro tra le mani.

Queste sono le domande che noi di STC gli abbiamo rivolto e le sue risposte spontanee, sincere, nel giorno più importante della sua vita di scrittore, quello dell’uscita del suo romanzo d’esordio.

Noi siamo il Super Tramps Club e siamo convinti che ogni storia sia come un vagabondaggio. Quanto è stata vagabonda la scrittura di Zia Dot? È andato tutto secondo i piani o ti sei ritrovato dove non avresti immaginato?

Innanzitutto un saluto a tutti i tipacci del STC.

Per rispondere alla tua domanda… quando scrivi, poco va secondo i piani. Puoi sapere a grandi linee, grandissime linee, dove vuoi andare ma, per come la vedo io, le storie sono fatte da gente che parla. E se metti insieme due tipi che parlano, sono loro che comandano. Non sto dicendo che la situazione debba andare fuori controllo, penso solo che è mentre scrivi, mentre loro parlano e tu trascrivi, che certe cose iniziano a sembrarti giuste e altre sbagliate.

Dot e Marv sono due ribelli troppo cresciuti. Stare con loro nel pick-up mi ha messo davanti a tante decisioni e tanti fuoristrada da risolvere, ma sono stato in ottima compagnia. Spero varrà anche per voi.

A novembre abbiamo avuto l’onore di pubblicare su Turchese, la nostra rivista letteraria, il tuo racconto “Una gabbia più grande”, il pezzo ci aveva colpito subito per il suo ritornello: drink fast, drive free. Quanto sei stato libero nella scrittura di Zia Dot? Ti sei posto dei paletti o sei andato fast and free?

Fast and Free, senza dubbio.

Una volta proposta la trama generale all’editor di Fandango (ciao, Lavinia!), ho iniziato a scrivere e non mi sono fermato fino all’ultimo capitolo. Devo ringraziare la casa editrice per avermi lasciato totale libertà e, soprattutto, per aver confermato l’idea che nella fiction è necessaria.

Scrivo di me parlando di altri posti, altre persone, altri tempi. Ed è proprio per questo, per il loro essere “altri”, che la libertà deve essere totale. Non si deve sempre lanciare un messaggio con ogni frase, non tutti i personaggi devono essere brave persone e non tutto deve avere un lieto fine. La narrativa, per sua natura, prende la vita e la riordina in base a certe necessità, a certi schemi, raccontando solo quello che serve. La narrativa, perciò, non è la vita, ma ci deve somigliare. E niente è perfetto nella vita.

Dot, poi, la odia la perfezione.

Ah, quasi dimenticavo una curiosità per tutti quelli a cui è piaciuto il racconto “Una gabbia più grande”. Seth è ancora in giro col suo tir, in Arizona. Ossia dove è ambientato il novanta percento del romanzo. A buon intenditor…

Sono sicuro che molte lettrici e lettori di STC se ne ricorderanno. Il pezzo però era fortissimo e intrigante proprio in quanto short story. Quanto è stata diversa la stesura di un testo lungo come Zia Dot? Nell’approccio alla stesura, in che modo ti ha aiutato aver scritto tanti racconti prima?

Ho iniziato a scrivere racconti diversi anni fa.

Sono sempre stato un amante della sintesi, ma il racconto è un meccanismo preciso a cui devi adattarti, che ti costringe a far funzionare tutto. I dialoghi devono essere liberi, ma tutti necessari, gli eventi principali devono scattare esattamente quando servono e il finale deve colpire, esplodere o implodere completamente. Secondo me, chiaro.

E questo modus ti forgia. Senza i racconti non avrei mai scritto Zia Dot.

Il primo capitolo, ad esempio, è proprio il secondo racconto che Matteo B. Bianchi ha pubblicato sul numero 34 di ‘tina, letto poi dall’eleganZissima Drusilla Foer sul podcast della rivista. Gli altri capitoli li ho pensati come dei piccoli racconti, provando a catturare ogni volta il lettore, anche se per poche pagine.

Spero di esserci riuscito.

Ma tu non hai scritto racconti solo per Turchese! Proprio con il titolo Zia Dot avevi pubblicato, due anni fa, un racconto su ‘tina, la rivista letteraria di Matteo B. Bianchi. Qual è il tuo legame con le riviste e quale ti sembra sia il rapporto tra queste e il mondo dell’editoria classica?

Come dicevo prima, i racconti per me hanno funzionato. Ho continuato a mandarli alle riviste, a stamparli e a metterli nelle mani delle persone che ho conosciuto. È così che sono finiti sul tavolo dell’editor di Fandango.

E perché sono piaciuti a qualcuno, ovvio.

Sarebbe inutile pensare che l’editoria viva di romanticismo e passione. Un editore cerca sempre qualcosa di buono, che piaccia e che possa piacere. Per sapere se piaci, devi farti leggere. Per sapere se piaci a chi legge per mestiere, devi inviare alle persone giuste. Pubblicare sulle riviste non è solo una grande soddisfazione, dice anche che qualcuno ha creduto in quello che scrivi e che, forse, potrà farlo qualcun altro. Come un agente, ad esempio.

A questo proposito, approfitto per citare la mia agente, Melissa Panarello, e la sua PAL (Piccola Agenzia Letteraria), interessata in particolar modo agli esordienti. E per avere un’idea di tutte le riviste italiane, consiglio di dare un’occhiata alla mappa delle riviste di Modestina Cedola, somma conoscitrice e instancabile lettrice. La trovate online.

Cosa vorresti poter dire a una persona che sta per iniziare a leggere Zia Dot?

Non mi piace molto creare aspettative.

Posso, piuttosto, mettere in guardia i futuri lettori.

Godetevi le parolacce, non sottovalutate mai i crotali del Sonora e non fate mai i testimoni. Un saluto a tutti!

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