Pretty Elegia

un racconto di Deborah D’Addetta.

Avevo dimenticato Vito sulla scrivania.

L’avevo visto con la coda dell’occhio, quasi timidamente mi stesse implorando di non lasciarlo lì. L’avevo visto, ma il mio cervello non aveva impresso alle gambe la forza necessaria per tornare indietro. Ero incespicata nel mio vestito di pizzo lungo, troppo lungo, quei dannati tacchi che ne sfilacciavano il bordo, ed ero uscita di casa. Era tardi, quasi le sette e trenta, e alle otto iniziava il nostro spettacolo.


Forse dimenticato non è il termine corretto, dovrei dire involontariamente ignorato.

Si chiama Vito, la mia macchina fotografica intendo. Credo risalga ai primi anni ’40 quindi è vecchio. Comunque, quando lo lascio a casa succede sempre qualcosa di brutto. 

Io e Jun andavamo a vedere uno spettacolo di bel canto al San Carlo. Non ero mai stata a teatro, né lì né altrove. Erano due prime volte allora, quindi ero doppiamente felice. Le prime volte possono essere spaventose, perché incertezza e aspettativa sono due fardelli pesanti da portare, ma sono pure eccitanti e a me piace essere eccitata: mi piace lo spirito frizzantino che si sveglia, la lista delle cose da fare che si accorcia, la discussione che segue dopo l’esperienza e le miriadi di foto che ne vengono fuori.

Dannazione però, avevo lasciato Vito a casa.


Il soprano si chiamava Pretty e quel nome le stava d’incanto: era davvero bella, tutta fasciata in un costume di scena che forse ricordava una farfalla, forse un fiore del tramonto. Aveva la pelle color caffè, riuscivo a vederla chiaramente con i miei occhialini d’avorio, di quelli antichi, che mi facevano sentire snob abbastanza da giustificare la mia presenza su un palchetto piuttosto che in platea, ma probabilmente ero semplicemente una versione a buon mercato di Vivian in “Pretty Woman”.

Anche il teatro era molto bello, tutto oro e rosso e soffitti pesanti, profumo di stoffa polverosa e vernice. Il palco reale era occupato da tre uomini e una donna, uno dei quali dormiva con la testa penzoloni all’indietro e i restanti sbadigliavano. 

Forse anche l’abitudine è un fardello pesante da portare.

Avevo espresso il pensiero ad alta voce e Jun aveva risposto con una foto mentre osservavo Pretty dagli occhialini, la bocca semiaperta. Pensavo di risultare sexy, invece mi rendevo conto di non essere nemmeno la versione cheap di Vivian quanto piuttosto l’ultimo stadio mortale della tisica Marguerite Gautier.

«Te l’avevo detto di prendere Vito.»
«Lo so, ma avevo già le mani piene di roba…lo scialle, la borsetta, il cellulare che non entra nella borsetta, la borsetta che non entra nella borsetta. Non ci sta niente qui dentro, a mala pena ci ho incastrato la carta d’identità.»
«Che te la porti a fare?»
«La carta d’identità o la borsetta?»
«Adesso che me lo chiedi, mi sorge il dubbio.»
«Non sta bene presentarsi con le mani in mano quando si è in abito lungo.»
«Perché?»
«Cosa faccio con le mani vuote? Sembrerei strana, come se mi mancasse uno scopo.»
«Sei bellissima.»

Avevo sorriso, ma poi il sorriso è morto.

«Ecco i tuoi genitori.»

Sentivo una voragine nel petto o forse era un grumo di rabbia.

Non sapevo decidere insomma se dentro di me ci fosse un vuoto troppo vuoto o un pieno troppo pieno. Mi sentivo arida. Ma pure ribollire d’odio però, gonfia di sentimenti acidi, appuntiti. Eppure ero immobile, lo sguardo fisso sul panorama, perché se avessi provato a sbattere le palpebre avrei pianto.

Sentivo giusto una lacrima traditrice pizzicarmi l’angolo dell’occhio e tentavo, tentavo di trattenerla, mettendomi a pensare a quanto bella fosse la luna, al fatto che l’indomani io e Jun saremmo partiti per le vacanze, a quanto fosse aspro il mio delizioso Margarita da venti euro.

Se solo provavo a spostare il mio peso sul gluteo opposto, se sollevavo una mano per scostarmi i capelli dal viso, mi veniva da piangere.

Così me ne stavo granitica, seduta davanti a una notte sciaguratamente calma, con il lungomare di Mergellina ai miei piedi. Pensavo che fosse molto ingiusto trovarsi di fronte a quel panorama senza avere davvero la leggerezza di goderne.

Jun non sapeva cosa dire.

Aveva assistito a tutta la scena nell’imbarazzo più totale. Volevo scusarmi, stringergli la mano per dare un senso a quella stupida luna che proprio in quel momento aveva deciso di essere così meravigliosa, per dirgli ci sono, sono qui, perdonami. E mi arrabbiavo, perché più tentavo di muovere un muscolo, più provavo a emettere un fiato, più quel grumo nero si contorceva, impedendomi persino di respirare.

Se avessi avuto Vito avrei scattato una foto.

 Il cielo di notte però non viene bene in fotografia e forse è meglio così: contemplare, solo contemplare, senza dire niente.


Non pensavo mi sarei mai messa a urlare all’interno di un posto come il Gran Caffè Gambrinus. Io, coi miei capelli, il vestito di pizzo e la dignità sciolti, dicevo a mio padre che avrebbe potuto trovare un momento migliore per rovinarci la serata. Era la mia prima volta a teatro, la mia prima volta con Jun, e avrebbe dovuto essere una serata perfetta. 

E lo era stata, con Pretty che aveva cantato come un uccello del paradiso, i violini all’unisono e gli applausi da ogni parte, fin quando i miei genitori non avevano deciso di fare quello che gli era sempre riuscito meglio: pretendere di decidere della mia vita facendomi sentire in difetto per averlo solo pensato.

«Tua zia festeggia cinquant’anni di matrimonio a ferragosto e organizza una festa.»

Buonasera anche a te, papà, che bello rivederti dopo due mesi, come stai?

«Ah sì?»
«Ovviamente è invitato anche Jun.»

Il mio ragazzo aveva sorriso educatamente. 

«Parto per l’Olanda tra qualche settimana, purtroppo non ci sarò in quei giorni.»

Mio padre allora aveva preso a guardare me.

«Ah. E tu?»
«E che faccio, non vengo?»
«Ok. Questa è la prima notizia che ti dovevo dare.»
«Potremmo fare due chiacchiere prima di parlare di queste cose?»
«Ho trovato una signora che è interessata ad acquistare la macchina quasi al prezzo di vendita. È un affare.»
«La mia macchina?»
«Sì, la Smart.»
«Papà, te l’avrò detto venti volte, la macchina non la vendo. Il fatto che sia nel tuo garage non ti dà il diritto di farci quello che vuoi. Ma poi possiamo discuterne in un altro momento?»

Mia madre, ferma in piedi al mio fianco, non si era presa la briga di prendere le mie parti. Avevo capito allora che avevano già preso quella decisione senza consultarmi.

«Martedì la signora viene a vederla.»
«E chi ti ha detto di prendere un appuntamento?»
«Non la possiamo più mantenere.»
«Ti ricordo che la sto pagando io.»
«Non stai lavorando adesso e io non posso darti niente. Come la paghi d’ora in poi?»

In un attimo avevo dimenticato gli usignoli, i violini e il profumo di stoffa polverosa e vernice. La saliva mi era scesa in gola come calce e, cercando di mantenere la calma, avevo cercato di spegnere l’inopportunità di quel discorso.

«Ne parliamo un’altra volta.»
«Ti ho detto che martedì la signora vuole una risposta. Ci vuole dare quattro mila euro.»

Quello è stato il momento in cui avevo smesso di guardare in faccia Jun.

 Avevo perciò raccattato il bordo del mio vestito lungo, troppo lungo, e mi ero allontanata, il tumulto nel petto, dapprima sommesso, poi sempre più prepotente. Tumulto che aveva trovato sfogo proprio davanti all’elegantissimo bancone del Gambrinus, perché non potevo credere che mio padre avesse scelto proprio quel momento per decidere di disporre a suo piacimento di qualcosa che mi apparteneva. Allora avevo urlato, avevo urlato che ero stanca, ero stanca del loro controllo, della pretesa che dovessi solo obbedire, che dovessi puntualmente sentirmi in difetto, perché i figli non sono persone, sono figli e basta ed è solo loro prerogativa dover chiedere scusa.

Come un’eco alle mie parole, mia madre aveva sibilato che ero un’ingrata, che stavo facendo una figuraccia. Lo aveva detto con una voce sottile, quasi impercettibile, con l’intenzione di convincermi che fosse stato solo un suggerimento della mia stessa mente.

Molte persone avevano assistito alla scena furtivamente.

«Se vendete la mia macchina, voglio tutti i soldi sul mio conto.»

Mio padre, spiluccando un enorme sorbetto chiuso in un vero limone, aveva risposto rabbiosamente vaffanculo, stronza.
Jun intanto s’era pietrificato, infilandosi le mani in tasca e sussurrando un flebile vabbè.

Forse Vito, solo soletto sulla mia scrivania, ride. Perché lui sa che quando lo lascio a casa succede sempre qualcosa di brutto.


Ciò che più mi feriva era la vergogna.

Mi corrodeva dentro il pensiero di come fossi apparsa a Jun, vestita come una diva ma con la faccia stravolta da quelle due semplici parole. Trovavo il coraggio di guardarlo in faccia dopo quasi due ore, temendo uno sguardo accusatore, forse deluso.

«Non essere triste.»
«Vorrei sprofondare sottoterra.»
«Non è colpa tua. E poi la serata è ancora lunga.»
«Non è vero, quando una cosa si rovina, si rovina per sempre.»

Dei fuochi d’artificio a Castel dell’Ovo scoppiettavano, d’accordo con me.

«Mi vergogno.»

L’avevo detto piano, la gola serrata.

«I genitori non te li scegli. Hai un’altra famiglia, lo sai.»
«Non voglio fare pena a nessuno.»
«Possiamo fare l’amore, così sistemiamo tutto.»
«Non ho fame.»
«E che c’entra?»
«Scusa, sono un po’ frastornata. Se vuoi passiamo da McDonald.»
«Tu odi McDonald.»
«Odio anche i miei genitori.»

Jun mi aveva preso la mano, il suo calore mi faceva sentire meno oppressa.

«Sembri una statua. Sei molto bella.»
«Forse sarebbe meglio dire “pretty”.»
«Ti è piaciuto lo spettacolo?»
Avevo ritrovato il sorriso.
«Tantissimo.»
«Allora la serata è andata bene.»


In fila al McDrive pensavo che Vito sarebbe stato perfetto. Avrei potuto fotografare l’intero repertorio delle emozioni umane in una sola sera.

Avrei potuto. Se solo lo avessi portato con me.

all pictures by Cihan Öncü.

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