Screpolature

un racconto di Stefano Tarquini.

Torniamo a casa che è quasi ora di cena. La luce estiva è ancora percepibile, estremamente presente, stropiccio gli occhi salati, parcheggio.

Mentre mi carico di zaino, stuoino e borsa frigo, Sofia attraversa la strada da sola, guardando da entrambe le parti come le hanno insegnato i nonni. Porta sulle spalle i segni bianchi del costume che arginano un’evidente scottatura, di cui non si lamenta. L’ombrellone lo lascio dove il portabagagli sparisce nei sedili posteriori, non lascia sabbia, non porta rancore, non è arrugginito.

L’ho vinto qualche anno prima a un gioco a premi al bar del campeggio dove stavamo trascorrendo le ferie.

Se lo sarebbe aggiudicato la persona che, in meno tempo, si fosse scolata una bottiglia di Peroni ghiacciata, senza staccare le labbra dal vetro, senza ripensamenti, senza lacrimare. Poco male. Abbiamo partecipato in sei, come i secondi che c’ho messo a mandare giù la birra.

Non avrei mai infilato un filo nella cruna di un ago. Non avrei mai vinto un corsa campestre. Né una coi sacchi. Briscola si. Tressette pure. Biliardino in coppia. Calcetto su un campo di pozzolana, che aveva segnato le ginocchia e le caviglie di tutto il litorale, fino a che Di Marco, il proprietario del camping, si è deciso a comprare l’erba sintetica.

L’inizio di una uova era che però coincideva con la fine della mia adolescenza.

Sofia mi aspetta al portone seguendo con attenzione ogni passo che faccio. Asseconda il mio movimento perché è il suo movimento. Se io faccio un passo, lei fa un passo. Non che io sia chissà chi, ma sono comunque un padre e quindi niente, mia figlia vive come avrei voluto vivere io. Libera.

La raggiungo al portone, prende le chiavi dalla mia tasca e apre il portone. Anzi, me la godo mentre attraversa la strada e si mette davanti al portone guardandomi. Non è un prenotarsi, né un essere presente, sto lì a guardarla con le mani dietro la schiena.

Ma il dado è tratto. Non posso intervenire su di lei né sul suo corpo.

Ormai mi guarda come un’alternativa. Buttiamo le monete insieme a Fontana di Trevi esprimendo un desiderio. Compriamo pizza bianca e mortadella all’alimentari all’angolo.

Entriamo nell’androne insieme e la situazione è palese per entrambi. L’ascensore è bloccato e arrivano colpi da dentro.

Aiuto. Aiuto.

Qualcuno è in pericolo, pare. Appoggio la fronte sul vetro guardando in alto ma vedo solo buio. Andiamo al secondo piano. Nessuna traccia dell’ascensore.

Aiuto. Aiuto.

Al secondo piano non c’è niente. Nessuna forma di vita. Saliamo al terzo che poi è dove abitiamo. Niente, nessuna traccia dell’ascensore, ma il palazzo ha quattro piani. Salgo.

all pictures by Alexander Bronfer.

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