Elysium

un racconto di Giulia Jo Zavaroni.

Tremo. Mi tremano le palpebre, non voglio che mi tremino le palpebre, non riesco a smettere, chiudo gli occhi.

Qualcosa ticchetta freneticamente sul pavimento del tram, la mia gamba trema, le mie scarpe ticchettano sul pavimento? Pensavo di avere addosso delle scarpe da ginnastica, cos’è il tic-tic? Guardo in basso, ho delle scarpe da ginnastica.

Quanto dannatamente è assordante!

Ho freddo, fa freddo? Non so interpretare la temperatura esterna, batto i denti lo stesso. Questo deve essere l’Inferno, me lo avevano detto, forse, ma, in caso, è stato in un momento che non ricordo bene chiaramente. La testa non vuole stare ferma qui, mi ronzano le orecchie, è metà luglio, cazzo, perché fa così freddo?

Apro poco gli occhi, però la luce giallognola è confusa, troppo intensa, così non riesco a metterla a fuoco, è quello il ronzio nel tram. Ho gli occhi impastati e pulsanti, sembra troppa luce, li chiudo. “Inferno” è appropriato come nome.

Il tram si ferma di nuovo, quasi quasi cado, devo avere una mano aggrappata a uno di quei pali gialli, strattone, sobbalzo, sono ancora dov’ero. Col culo per terra? Ce l’ho sempre avuto? Mi sto spalmando sul pavimento preda della mia scimmia e devo pure scendere da qui tra poco.

 Devono starmi fissando tutti. Vediamo se mi stanno fissando tutti.

È tutto folle, i colori sono tutti confusi, è una zuppa di facce qui intorno.
Mi puntello con i piedi, mi devo alzare, non capisco se ci riesco o meno, ma la testa mi prende a girare, vedo tutto diventare a puntini bianchi e neri.

È uno di quei vecchi tram torinesi, quelli arancioni che scricchiolano col numero scritto piccolino davanti che uno non sa mai se sta salendo sul 9 o sul 16.

Mi appendo a un sedile.

Tutte le facce si allungano come in quel quadro, mi scivolano dallo sguardo, le perdo. Improvvisamente tutti hanno più occhi del dovuto, si sovrappongono. La gente non ha tre occhi.
Sto per svenire, potrei giurarlo, questa realtà così è impossibile da vivere, non mi sento più le gambe né le dita, ho le articolazioni in stand-by. Dovrei essere in piedi, perché sto perdendo il controllo della realtà, c’è solo una nebbiolina grigia, tipo gli schermi ciccioni di quei vecchi televisori quando c’era qualcosa che andava storto.

Ho le ciocche di capelli bagnati che mi si sono attaccate dappertutto sotto il cappuccio, alla fronte, alle tempie e pure alle guance e al collo; le gocce di sudore freddo mi scendono giù nella felpa fin dalla fronte.

Mi sento le palpebre bagnate, è stranissimo sentirsi le palpebre coperte da un velo d’acqua quando non si è nel mare, sembra ti si debbano incollare appena le apri.

Sta di fatto che devo scendere tra poco, penso, e sono anche già in piedi. Riconosco la mia fermata dalla folla fuori dalle porte del tram appena si aprono, c’è la solita ressa brulicante di stronzi che spingono su chi deve scendere, che poi tecnicamente noi dovremmo anche avere la precedenza. Appoggio i piedi sull’asfalto e mi sento una sorta di Mosè che divide le acque. Il rumore di latta delle rotaie del tram mi assorda ancora finché quello non sparisce dietro un angolo. Dovremmo incontrarci più o meno qui, però non è così facile, ci si confonde troppo tra la gente.


Il lampione sopra di me si accende, decido di abbassarmi il cappuccio. Tremo ancora. Allungo una mano nella tasca dei jeans, quella bucata. Pesco il cellulare per guardare l’ora e lo rimetto a posto. 21:11 non vuol dire nulla, sposto il peso da un piede all’altro impazzendo, vittima del mio disastro. Recupero il telefono e di nuovo guardo l’ora. 21:12. Un soffio d’aria gelida mi fa rizzare i capelli sulla nuca, mi rimetto il cappuccio sulla testa e scruto con amarezza la gente in pantaloncini e maniche corte mentre io congelo.

Inizia a grugnirmi lo stomaco, mi sa che non mangio da un po’, poi non pensavo fosse già così tardi, c’è ancora quella sorta di blu acceso nel cielo, che i colori in giro si distinguono ancora per poco.

Potrei anche cercare da mangiare qui intorno, ma i soldi mi servono.

Nel buco nella tasca dei pantaloni probabilmente ho pure perso degli spiccioli.

E poi ho sicuramente degli avanzi da qualche parte. Non mangio mai quasi niente di quello che preparo. L’Elysium si è mangiato il mio appetito. Mi sto rosicchiando le unghie: non ce n’è più molto rimasto.

Brivido. Allungo un dito nel buco nella tasca. 21:15. Dovrebbe essere qui. Tra un po’ non me ne resterà nemmeno per arrivare a casa in piedi. Guardo un po’ dappertutto sperando di vederlo comparire, ma tutto quello che capita è che mi becco occhiatacce di rimando da mamme con passeggini e nonni schifati come se fossi una zecca sul cane.

Come se poi fottesse qualcosa a qualcuno di quelli come me.

Mi sembra che questo sia il tipo di cose di cui dovrei scrivere, quel genere di pensieri che tempo fa uno strizzacervelli mi aveva detto di mettere nero su bianco, così per tenere traccia di che cosa mi passasse per la testa. L’ho sempre trovata un’idea cretina. Non lo so neppure io cosa mi passa per la testa, soprattutto ultimamente, soprattutto così a fondo nell’Inferno. Però ogni tanto alla fine ho iniziato a farlo, per dire se succedeva qualcosa, o anche no. Così, no?, per avere dei ricordi per quando le sostanze si saranno mangiate anche quelli. Solo che a lungo andare le parole hanno smesso di funzionare.

Certa gente da strafatta finisce per scrivere capolavori per sbaglio.

Due cazzate deliranti su un foglio e hanno scritto la storia di una generazione e non ce ne sarà più un altro come lui, che peccato che sia morto così giovane, aveva tanto da dare. Sono stronzate. Aveva la disperazione da sfogare, siete stati la sua latrina e la sua rovina. Io invece sto scivolando e quello che scrivo è solo il diario di un tossico qualunque. Non ha più senso, non ha più forza, non racconta più la storia di nessuno.

A lungo fissai anche la mia immagine riflessa nella finestra che dava sul canale, ma a restituirmi lo sguardo dal vetro sottile non furono mai gli occhi che sempre avevo cercato.
Forse mi sopraffece il terrore, forse vidi dell’irreversibile e fuggii temendo che il salto fosse troppo lungo per le mie gambe rachitiche.

21:20. Compare.

Adesso cammino contando ossessivamente i passi, dieci passi, quindici passi, trenta passi.

Devo tenere sotto controllo i piedi, ho paura di perderne il controllo, ho paura di esplodere se calpesto la linea tra due lastroni di pietra, sprofondo le mani in tasca e cammino con una spalla contro il muro. Così non cado. E cammino dritto.

Sessanta passi. Settanta? Sessanta? Continuo e perdo il conto.

Ho le mani in tasca con il telefono e il pacchettino di stagnola di Elysium che si scalda nel mio pugno. Continuo a giocherellare con il buco nella stoffa.
Quarantotto gradini. La chiave non funziona. Bestemmie.
Cucchiaio.


Tremo ancora, ancora di più. Mi impegno per tenere ferme le dita svolgendo il cartoccio. Ho le chiappe sul morbido e una linea di luce di qualche lampione arriva da fuori dalla persiana.
Il cucchiaio diventerà rovente. Succhio con l’ago il liquido trasparente e ammiro la prima goccia che spunta e scende sul metallo freddo con lentezza esasperante.

Estasi.

Mi serve una concentrazione di cui non sono capace per beccare la righina verde quasi invisibile nel mio braccio, seguo i buchi precedenti della mia vita di sconfitte e osservo con interesse morboso la prima goccia di sangue infettare l’invisibilità perfetta della droga. Butto finalmente indietro la testa e dimentico l’ago lì dov’è. Mi abbandono a guardare i minuti gocciolare davanti ai miei occhi mentre inspiro ed espiro pianino e ascolto il cuore battermi nelle orecchie, assaporando questa lucidità provvisoria e finta.

C’è questa felicità assoluta, inconsapevole e incondizionata nell’Elysium, così indipendente dall’esterno, così pura, nel sentire i secondi dilatarsi al ritmo dei respiri lenti. È l’attimo di spensieratezza nella solitudine estrema a cui la sostanza ti ha ridotto senza che tu abbia potuto farci nulla, e ogni dose rende l’abbandono un po’ meno tollerabile, l’abisso dell’Inferno un gradino più profondo. Dura sempre meno, lo percepisco.

Vorrei poter tenere qui con me questo sentimento, non voglio dimenticarmene, vorrei poterci tornare a comando, rievocarlo, ma tanto non è possibile. Questo sentimento tutto sommato felice di vuoto, di oblio, ottundimento.i, dieci passi, quindici passi, trenta passi.

(Sempre che io sappia ancora cosa vuol dire felice).

Guardarmi intorno senza sapere che ore siano, senza percepire consciamente dove mi trovo, senza capire se le lenzuola che mi avvolgono sono quelle del mio letto o forse di un letto d’ospedale. Non ricordarmi nulla della notte passata, non ricordare come ho finito per addormentarmi, quando, non sapere cosa abbia deciso di svegliarmi, non sapere cosa devo fare; oppure saperlo, ma averlo temporaneamente rimosso. Sentire il cervello annegato dall’alcool o dalla qualsiasi sostanza. Non sentire davvero gioia, né dolore, o paura, incertezza. Solo questa unica, totale e tanto pura quanto fittizia estasi, perdermi nel folle adesso fornito dalla sostanza.

Ho terrore di questa sensazione, ho paura di dimenticarla, ho paura di dimenticare quanto sia orrendo doverne uscire e trovarmi senza rimedio ad affondare nella crisi fino al collo, sentire la scimmia malefica saltellare sopra di me e guardarmi mentre scompaio, ma vorrei lo stesso poterci tornare a piacimento, al porto sicuro dell’Elysium, come a un abbraccio.

Non è la sbronza semplice che cerco, quella che lascia con la testa che gira, non è il goccio di scotch per cadere a dormire, non è la marijuana per fare due risate e poi potermi svegliare dopo otto ore di sonno riposante come gli umani normali, è l’eccesso, il bruciore, il terrore, il non reggersi seduti, e infine il sentimento come di svenimento che mi libera dal male, amen.

Perdere tutto, ritrovarmi senza riuscire ad unire i puntini della vita delle ore precedenti, come quando uno ha la sensazione di essere stato, ma allo stesso tempo non esserci stato.
Una gioia così la si riesce ad apprezzare con timore reverenziale solo dopo aver conosciuto gli abissi che la precedono, la valle scavata sempre più a fondo nella nostra anima dalla vita bastarda e crudele che ci ritroviamo a vivere, costretti a inscatolare i sentimenti per la paura che ne abbiamo.

Da lì solo si apprezza una tale perdita di coscienza, l’essere preda di una realtà chimica, come manna.

E ci si maledice, infallibilmente, in seguito, per essersi accordati un tale lusso una volta: saremo ora schiavi obbedienti in saecula saeculorum. Peggio staremo, più cercheremo, pur consci che ad attenderci al di là di questi Campi Elisi c’è un Inferno proporzionalmente fondo, oscuro e degradato.

all pictures by Eliza Bourner.

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