un racconto di Irene Catania.
Tempi maestri e insicuri,
i cui confini
raggirano la mia paura.
Agganciata alla disperata voce
che mi lega alle cose,
rimango imperturbata e stretta
a un profumo di ambra.
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Sopra di me si effige un misterioso
quadro di morti e di respiri affilati;
la direzione del corridoio
si irrigidisce e la luce
vacilla alla camminata che
smette di nascondersi.
L’affisso della notte si disperde
veloce, veloce, veloce e
il suono di Dio prende
con veemenza il mio collo.
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Il rumore della sirena offusca
l’ombra addensata al mio fianco sinistro,
immobile e gelata come un soffio.
Seppi muovermi terribilmente
in un lago di ghiaccio,
incatenata ai contorni della mia
teca fiorita, nascondendomi.
Ma dell’ombra non potei mai privarmi del suo sguardo.
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La sua voce sprezzante mi raggirò
con destrezza, soggiogandomi
nella salda e delicata presa. Il rumore
del suo roco calore mi colse
vertiginosamente.
Mi mosse con facilità, passi
che detenevo diventarono suoi
e lo specchio si infranse
ben presto nella sua forma.
Le lampade sfavillarono ma mai
il suono della sua gelida mano
poté sfregarmi come il tatto nudo
del marmoreo pavimento.
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Fissai con curiosità il labirinto
da lei offerto, stringendomi
con delicata premura l’anca.
Il suo rigido e inconsueto tocco
era più che mai aria da cui
riempire la teca, le cui mura
ben presto iniziarono a tremare.
“Lasciati” il bisbiglio del suo respiro mi fece sussultare.
“Non respirerei” dissi io sentendo dell’acqua scendermi lungo le guance, infilandosi frettolosamente nell’incarno delle mie labbra.
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L’ambulanza impallidì con veemenza, il corridoio si strinse maggiormente attorno alla mia figura mentre l’acqua bollente saliva ai miei piedi. Dell’ombra non seppi più vederne i contorni, ma il suo tocco non mi lasciò mai.
“L’acqua ti inghiottirà.”
La sua futile speranza di destarmi mi sorprese, ma non come il suo desiderio di restare incolta nella mia teca, i cui fiori stavano ormai germogliando nei miei capelli.
“Se è per questo, inghiottirà anche te.”
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Il tintinnante rumore del mio cuore si fece presuntuoso e il mio respiro divenne un morso con la paura: l’acqua accarezzò le mie mani e il corridoio si strinse attorno alle mie spalle. Il riflesso del viso di mia madre si sparse fugacemente dinanzi a me, la fredda sensazione dell’aria si fece rigida intorno al mio corpo immobile e incatenato alla presa dell’ombra. Conoscevo questa sensazione, ma invece di scappare da essa, come una volta avevo già fatto, la incarnai facilmente e con destrezza. Alzai lo sguardo e guardai l’immensa luce al di fuori della teca: infiniti rami, disperdersi attorno ad essa, si scagliavano contro il vetro. L’ombra divenne sempre più piccola e infinitamente nera, mentre la sua presa si rinsaldava. La guardai con premura socchiudendo gli occhi, mentre la sua forma si trattenne dal ramificarsi in altro o in altri: prese con cura il mio viso, destandomi dalla luce sfavillante che impregnava la mia mente.
“Ti lascio.”
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Le sue parole raggiunsero così debolmente le mie orecchie, l’acqua che mi stava inghiottendo ferocemente, che non ebbi l’opportunità di arrendermi con facilità al fugace contatto delle onde e alla definitiva scomparsa dell’ombra. La sua figura si dileguò come mi aveva colto e l’acqua si fece spazio tra le mie insidie, raggelandomi con infinita tristezza e calore. Sentì con appanno gli sgriccioli della teca deformarsi ma non seppi aprire gli occhi per comprendere quel che stava accadendo. Il rumore incolto della sirena si disperse nella torbida acqua e i polmoni si riempirono finalmente di qualcosa, una sostanza che non sapevano contenere. Il respiro infisso ai lati della bocca si perse nell’acqua e il temuto suono del mio cuore rispose ferocemente, arrendendosi.
tutte le foto di Alena Zhandarova.
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