senza nome nero

un racconto di Sibilla.

Ormai è tardi. Curioso iniziare rimarcando il fatto che sia così tardi, che non ci sia più tempo.

Ormai è tardi.

I bambini sono al sicuro nella dolcezza delle coperte, così sature dell’odore calmo e malinconico dei neonati, nelle braccia delle loro madri, gli anziani giacciono inerti e rassegnati nei loro letti, tengono le mani nodose giunte al petto, nemmeno gli amanti approfittano dell’amore, anche l’amore è stanco, deve dormire, cessare, morire.

Io no. Io non posso dormire.

Io sono sempre sveglia, se il mondo dorme, sono cullata dai vostri respiri pesanti e assonnati, quando voi dormite io sono il suono sottile e ruvido della matita, sono l’acqua che scorre sul marmo, implacabile, sono il senso di vuoto, la fitta allo stomaco e il profumo del vostro compagno di letto, sono la morbidezza della sua pelle, il suo contatto familiare, troppo familiare.

Mentre voi dormite io indago sulla morte e su tutte le altre stagioni, la mia mente lavora veloce e produce parole e paradossi e suoni artificiali, immagini artificiali, immagini che si muovono davanti a me come visioni, miraggi, ma sempre tiepide, senza violenza, senza colori, senza luce. Ed esisto in un altro luogo, dove posso vivere la purezza del sentire nella solitudine più candida e abbacinante, dove il male finalmente mi prende alla gola, e con le spalle al muro mi costringe a dire la verità.

Questa è quell’ora della sera in cui io cesso d’esistere, finalmente, in cui il mio corpo perde forma e la materia si disgrega e ogni cellula sente il dolore più puro e impetuoso che esista e io mi contorco nelle sabbie mobili della mia pena, non vedo se non quelle visioni fatte di buio, e la sostanza che prima era la concretezza di questo orrendo corpo pulsa e perde il fiato, non ho ossigeno, l’ho perso tutto, e anche il cuore esplode nel petto in mille rivoli di sangue nero, la morte mi sorride dalla finestra e mi tende la mano, sussurra una preghiera di suffragio a un dio anonimo.

Ma la mia finestra ha le sbarre come una prigione, e lei è una delle mie allucinazioni, o forse un concetto, forse un’idea, forse l’epifania della sofferenza, eppure solo questo tormento che sfugge a ogni definizione è vero e reale, veri i battiti così rapidi, vere le lacrime, veri capelli sul mio viso in pezzi, testimoni dell’orrore in cui mi riconosco come in un ritratto. 

Questa è l’ora della notte in cui voi chiudete gli occhi di fronte al mio rogo, alla mia condanna, ai lividi, al mio carnefice. Il sonno è un premio che non merito, che non avrò fin tanto che la luna mi spierà dalla finestra della mia prigione, complice della violenza che si consuma nella mia stanza, la stanza di una donna pazza, inferma, una creatura informe e mostruosa che tra la polvere del pavimento sogna di essere posseduta da tutto il male fuggito dal vaso di Pandora, ragni innocui le camminano sul corpo martoriato ma non se ne cura, imprigionata com’è nel suo tormento. 

Poi il giorno sveglia il corvo, il gatto e il passero, la brezza muove le foglie morte sull’asfalto, fa sospirare anche le lapidi nel lontano silenzio del cimitero. L’aria si fa umida e si carica della promessa di un temporale.

E quando voi vi svegliate, quando l’alba e i primi granelli di luce si introducono quieti nelle fessure delle persiane, quando il vento vi accarezza le ciglia ancora impastate dal sonno, arriva il momento in cui il gelo della mia camera riesce finalmente come l’oppio a sciogliere le fibre dei miei muscoli tesi, quando c’è luce io posso finalmente dormire, la vostra ridicola smania, il vostro frastuono, sono la melodia medicinale che può sedare il mio affanno, siete la voce di una madre che mi consola, mentre voi vi affaccendate io dormo e riuscite persino a chiedervi cosa io mi stia perdendo: tutto, questa è la verità, ho perso ogni cosa, e l’ho cercata in queste mura asettiche e nel marmo del pavimento.

Non c’è amore qui. 

Piove in giardino e vorrei morire sotto la pioggia, invece dormo e sogno d’essere amata.

tutte le foto di Alejandro.

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