Equilibrio

un racconto di @lowqualityjesus.

Primo passo.

Fa freddo. Il vento umido oltrepassa il mio cappuccio stretto, mi sferza le orecchie, il collo.

È di nuovo quel periodo dell’anno dove la mattina si trema, nel pomeriggio si muore di caldo, la sera è gelida.

Al sole fa troppo caldo, all’ombra troppo freddo. 

La temperatura mi costringe a tenere le mani nelle tasche del piumino arancione, in letargo. Penso che non dovrei. Dà l’idea di una persona insicura, timida, che ha qualcosa da nascondere. È anche maleducato. «Tu non sei maleducato.» mi dico, forse ad alta voce. «Non hai niente da nascondere. Tu non sei cattivo.» 

Secondo passo.

Ma, come qualcuno forse sa, la mente non comprende la parola non.

È un concetto posteriore all’idea in sé: bisogna prima aver presente l’idea da negare e poi, in un secondo momento, associarla al concetto di divieto, o al suo contrario. Se ti chiedo di non pensare alla tua prima cotta, a cosa stai pensando adesso? 

Ecco, io però non lo so.

E, non sapendolo, per me non è un problema. Come se non ne avessi già abbastanza, di problemi. A volte mi chiedo da dove spuntino, sono come teste dell’idra, come conigli. Poi penso che mi faccio troppe domande. È un problema?

Terzo passo. 

Il problema non sono le domande. Sono le risposte. Le risposte cambiano se cambiano le domande, penso. Ma in realtà non l’ho pensato. 

Al mio conscio arriva solo quell’altro pensiero, lo stesso di sempre. Da mesi, anni, secondi.

«Non pensarci», mi dico. Non funziona.

Non ha mai funzionato e non so perché. A volte vorrei essere un’altra persona solo per conoscermi, andare a prendere un caffè con me stesso ogni tanto. Parlare del lavoro, del tempo, di dove voglio andare a vivere e del mio gatto. Ma ho paura che mi starei sul cazzo. 

Quarto passo. 

Non ne sono sicuro, in realtà. Non mi piacciono le persone che fanno a pezzi la propria personalità, il loro essere, per diventare come gli altri. Ho sempre pensato che a gli altri piacesse, trovare qualcuno come loro, ora metto in dubbio anche quello. Che significa gli altri

Mi piacerebbe saper dire che è un termine fottutamente riduttivo per indicare un insieme di individui completamente diversi, accomunati soltanto da opinioni e stili di vita imposti da un contesto di nascita e crescita e dalla loro identità culturale, oltre che dai bisogni biologici. Voler diventare come gli altri significa dedicare tutte le energie a dogmi comuni, dimenticando il tuo vissuto personale, ciò che ti rende individuo e che ti rende tu. 

Essere banale, in poche parole. Ed è la cosa che mi ha sempre spaventato più di tutte. 

Quinto passo.

Rinunciare all’identità o al senso di appartenenza? 

Come si fa a essere parte di una comunità basata sull’individualismo? 
Come si fa a essere individui in una società con regole così ferree, con convinzioni così sacre?

Qual è il confine tra autoanalisi, coerente e costruttiva, e paura del giudizio altrui? 

Dov’è che inizia la crescita personale e finisce il senso di adattamento? 

Quali pensieri sono davvero i miei? 

Tutto questo non lo so, è per questo che corro.

Sto davvero correndo? 

Sesto passo. 

Ciò che sento è il mio piede destro che entra in contatto con la suola di plastica delle Nike, sul cemento. Almeno, penso sia cemento. Cerco di concentrarmi sulla meta, ma in questo istante capisco che non so dove voglio andare. Non so nemmeno se me lo sono mai chiesto. 

So solo che voglio andare lontano.

Voglio arrivare a Itaca, all’Isola Che Non C’è, a Oz, in quel posto di cui parlano tutti nei libri. Il nome cambia ogni volta, ma è sempre lo stesso posto.

Deve pur esistere, se ne hanno parlato così tanti, per così tanto. 

Qual è la mia Itaca? Non lo so. So che è lontano e so che sono a metà strada. Ciò che non so è da dove sono partito.

Settimo passo.

In perfetto equilibrio 
Tra magia nera e magia bianca
Tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato
E ciò che è sbagliato diventa giusto perché in equilibrio

tutte le foto di Emma Louise Swanson.

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