Falene 3 – Forse l’oblio avrebbe dovuto attutire tutto

un racconto di Sibilla.

Cammino.

cammino sempre, io.

Comunque, sto camminando. Nevica. Nessuno lo avrebbe immaginato, ma nevica ancora. Piccoli fiocchi perfetti scendono rapidi e atterrano suicidi sull’asfalto, svanendo. È una cosa che non ti aspetti dalla neve, la pesantezza. Invece sono pesanti, raggiungono il suolo già bagnato con un’urgenza imprevista.

Non so neanche perché mi ritrovo a pensare a quanto la neve sembri pesante. Probabilmente è perché sto aspettando l’ennesimo pullman.

Aspetto sempre, io.

Ecco, diciamo che tra le poche cose che faccio, aspettare e camminare sono le più frequenti. E poi mi ritrovo sempre a osservare e analizzare e a ispezionare ogni millimetro delle cose. Sono maniacale. Ho bisogno di saperle, certe cose. Farei davvero di tutto per sapere certe cose. A volte mi basta solo osservare.

Un esempio più che banale, un ricordo.

Sono seduta, taccio.

Insomma, sto lì, su una poltrona scomoda, al buio, è notte, è mattina, non lo capisco, ma è quell’ora scura in cui solo menti antiche di secoli si affacciano alle soglie del buio in cerca di demoni grandi che le possiedano per dar loro finalmente pace. Sono del tutto immobile, guardo rapita le immagini scorrere sequenziali, rigide, e poi perdersi.

Prima, la nudità.

La nudità è davvero estrema. È perfetta e cruda, è unica, pornografica e veemente. Il contatto è un’esperienza-limite, materia pura che incontra materia pura. Spaventoso e magnetico, divora anime come aria. La nudità è ipnotica come poche cose, la concretezza della pelle, le forme distorte. Non c’è corpo che mente, mi ritrovo a pensare. La pelle è sempre sincera.

Sto scoprendo, sto conoscendo, assorbo passivo le immagini, mi scorrono nelle vene come linfa. Di sangue, non ne ho più, così triviale, no, non ne ho più.

Poi si fermano. Le immagini si fermano così, bruscamente, mentre io ancora avevo bisogno di sapere.

Non mi resta che sentire. Ma sentire, a una come me, non basta mai. Ho bisogno che il mondo mi violenti con la sua ferocia. Io voglio sentire con tutto il corpo, con tutti i sensi.

Allora cerco disperatamente di ignorare il mio demone. Lui è sempre stato lì, avvolto nella sua coltre di fumo, scuro in volto, seduto accanto a me, con quei capelli così affascinanti a incorniciargli un volto inumano, annientato dalle sue inquietudini, è lui a distrarmi dal mio sentire, sempre, è sempre lui.

Ho ancora fame di quelle immagini vivide, di quella apparenza di vita recitata con dovizia di particolari. E ci provo, provo a lottare contro di lui, anche quando mi attrae in quel suo mondo fumoso e acre e delirante, e per un poco mi arrendo, mi arrendo alla sensazione di non essere se non in minuti fatti solo di suoni puri, mi arrendo a esistere nello spazio intermittente in cui il tempo è denso come miele e tutto si fa ovattato e pesante, anche il respiro, e tutte le percezioni sono interrotte posso sentire solo suono e dolore, voci e dolore, musica e il mio, il nostro dolore.

Sono intrappolata nell’ambra, non so darmi spiegazioni.

La mia smania non mi ha portato a nulla, non riesco a non farmi contaminare dal mio demone, neanche con i sensi che tanto amo riesco a sopraffarlo, mi avvelena, è quell’oppio che toglie le forze ma uccide i confini dell’intelletto, quell’oppio che dislunga l’ illimite, mi basta osservarlo seduto sulla mia spalla per raggiungere una staticità particolare, per vedere i contorni delle cose sfumare e vedere in esse una spaccatura netta: una placidità, una stasi degne della sola morte da un lato, e della più incontenibile rabbia, del disprezzo, e di quel viscerale disgusto, dall’altra.

Neanche fargli vedere un poco dell’abisso, neanche esporsi, mettersi a nudo, lo turba in alcun modo, ha già testato tutto il male tangibile e ha detto: è mio.

E guardandomi negli occhi, nei miei occhi neri, in quei pozzi saturi di solo vuoto, quegli occhi che lui solo può guardare fissi senza scomparire nel caos, ha detto: sei mia.

Che angoscia, che angoscia appartenere e non appartenersi mai.

Nevica ancora, sto ancora aspettando.

Le mie dita un po’ congelano nella tasca di una giacca troppo leggera per una nevicata simile, un po’ tremano stringendo la sigaretta, portandola alla bocca. Cerco il mio demone nella strada, sperando di trovarlo nella neve sporca, ma ancora troppo, troppo pura per uno come lui.

E mentre io nella neve ricordo con tepore le notti in cui io e il mio demone ci siamo sfiorati, ogni tanto il mio sguardo ancora cerca.

Et cum illi pueri dicerent «Σίβυλλα τί θέλεις;» respondebat illa «Ἀποθανεῖν θέλω.»

tutte le foto di @rodrigochapat.

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