Mon Dieu – L’ebrea in tuta da ginnastica

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Illustrazione della gentilissima Ping Zhu. (Yo, thank you so much Ping!)

Antisemita, ignorante e carogna. Glielo vorrei dire, ma sapevo che sarebbe andata a finire in questo modo. Non mi aspettavo niente di diverso, non avrebbe senso dirglielo. Però lo penso.
“Antisemita, ignorante e carogna.” e lo penso di nuovo. L’amore della mia vita mi aveva detto che sarebbe stato così.
Adesso Monsieur Gaston mi sta chiedendo qualcosa a proposito del posto dove lavoravo prima, ma non lo ascolto. Non so cosa rispondere, mi sono già dimenticata cosa gli ho raccontato. Gli ho detto che di pomeriggio sono alla lavanderia? O che il mattino faccio la baby-sitter, la gardienne?
Monsieur Gaston è zitto, aspetta che io aggiunga qualcosa. Ma sono in un cul-de-sac e non so come uscire dalla situazione. Venire qui è stato un errore. Chissà poi cosa volessi dimostrare, mi sarei dovuta fidare.

«Gli orari sono molto duri,» provo a dire, restando sul vago. «Insomma, quel posto è sempre aperto, l’avrà visto qui in quartiere.»
Poi mi viene in mente, era la birreria. Gli avevo detto che lavoro in una birreria. «Cioè, sempre aperto, intendo ogni sera.» mi affretto ad aggiungere. «Gli orari della birreria sono sempre duri, per questo vorrei cambiare.»
Monsieur Gaston mi guarda senza sorridere.«Mi scusi,» dice. «In che modo potrebbe aiutarla, come segretaria, l’esperienza di lavoro in una birreria?»

Non ho bisogno di un lavoro, voglio solo andarmene al più presto da qui. Via da Parigi, da questo quartiere così piccolo, dall’ufficio di Monsieur Gaston.
Non ho la minima intenzione di diventare la sua segretaria, neanche se fosse l’unico datore di lavoro in tutta Parigi. È così diverso dall’amore della mia vita, sembra impossibile che sia suo fratello.
Raddrizzo la schiena sulla poltrona, so che tra poco dovrò alzarmi. Questa pagliacciata è durata fin troppo, non voglio avere nulla a che fare con quest’uomo. Se il mio amore non voleva che conscesse nostro figlio, avrà avuto le sue ragioni. Questa carogna morirà senza aver mai incontrato il proprio nipote.
Prima di dirgli addio, però, decido di togliermi una piccola soddisfazione.
«Sa, credo che invece aver lavorato in una birreria possa aiutarmi molto. So come gestire i tempi: i camerieri sono abituati a lavorare sotto pressione, riescono a incastrare gli impegni. Vivo giornate di trenta ore.» e questa è l’unica verità che io abbia detto in questo colloquio. Forse l’unica che io abbia detto oggi.

«Le racconto questo,» appoggio i gomiti sulla scrivania e intreccio le dita. Mi sembra che Monsieur Gaston sprofondi nella sedia. «È una storia che parla di termosifoni. Io mi alzo ogni mattina alle sei. E sa perché? Perché mio figlio vuole giocare con le costruzioni.»
Monsieur Gaston strabuzza gli occhi, ma ne ne farò una ragione.
«Mio figlio ha un anno,» continuo. «Poco meno, a dire il vero, e ogni mattina si sveglia presto e mi chiede di giocare con lui alle costruzioni. Ha problemi di reflusso gastrico, per questo si sveglia così presto: piange perché ha male alla pancia non smette finché non iniziamo a giocare alle costruzioni. Io devo dirgli di sì per forza, non posso lasciarlo piangere, perché alle sette esco di casa e non lo vedo più per tutto il giorno. Durante il giorno sta con mia madre.»
L’ufficio è veramente piccolo, vorrei essere più lontana, ma devo finire di raccontare. Non è stato un mio colloquio questo, è stato il suo. L’amore della mia vita aveva detto di non andare a cercarlo mai, che non sarebbe stato buono con me perché sono ebrea. Ma in questo colloquio ho capito che il suo non è soltanto un problema con una religione, è un problema con se stesso. In realtà Monsieur Gaston ha paura, è insicuro: ha bisogno che nel suo piccolo mondo, fatto di piccole bugie e piccoli quartieri, sia tutto al suo posto. Con rigore. Il mio amore mi aveva raccontato tutto questo, ma io non ho la sua pazienza: evitare Monsieur Gaston per un anno è stata l’unica scelta giusta. Per questo sono venuta in tuta. Spero che gli serva a capire qualcosa, ma non m’importa.

«Io le ho mentito,» dico puntandogli gli occhi addosso. Lui non cambia più espressione. «Non lavoro in una birreria, o almeno non solo. Sono anche una lavandaia e una gardienne, ogni mattino: la mia giornata è divisa fra questi tre mestieri, quando capita faccio anche qualche lavoretto in nero qui in quartiere. E fatico sempre di più a passare in sinagoga ogni settimana, ma una volta ci andavo sempre.
«In sinagoga?» ripete stupito Monsieur Gaston.
Proprio qui ti aspettavo, stupido antisemita. Et voilà. Ma sapevo che questa domanda sarebbe arrivata, l’ho detto apposta. «Oui, sono ebrea.»
Monsieur Gaston cerca di mostrarsi naturale, ma riesco a vedere cosa sta capitando nella sua mente. Allunga le mani incerte a raddrizzare una pila di fogli, cerca di evitare il mio sguardo.
«Quando torno a casa la sera tardi,» continuo. «Il mio bambino dorme già da ore. L’unico momento in cui lo vedo è quell’ora, tra le sei e le sette del mattino, in cui giochiamo alle costruzioni. E d’autunno, come adesso, fa freddo. Gliel’ho detto, questa storia parla di termosifoni. I termosifoni di casa nostra sono ancora spenti, anche se siamo già a ottobre. Lei lo sa quando accendono i termosifoni? No, lei non ne ha idea perché i suoi non sono collegato all’impianto di un condominio, sceglie  lei quando accenderli. Credo che tutti i termosifoni siano spenti in questo periodo, ma questo non è un suo problema. Al mattino io e mio figlio abbiamo freddo: sarebbe molto più semplice restare nel letto, sotto le coperte. Eppure sia io che mio figlio, reflusso o non reflusso, alle sei ci svegliamo perché sappiamo che altrimenti non potremmo vederci per tutto il giorno. Abbiamo una sorta di orologio biologico sincronizzato. O qualcosa del genere.
Monsieur Gaston, forse involontariamente, inizia ad annuire. Spero che il racconto abbia sortito il suo effetto. I muri dell’ufficio sembrano iniziare a distendersi.
«Non so bene cosa volessi arrivare a dimostrare con questa storia,» ed è vero. «Ma spero che lei ci pensi sopra, ogni tanto.» e sì, so che lo farà.

Mi alzo dalla poltrona. Senza salutare, mi avvicino alla porta a grandi passi. Dietro di me sento che Monsieur Gaston cerca di riscuotersi.
«Au revoir, le faremo sapere.» dice lui, ma non mi volto. Apro la porta e mi allontano lungo il corridoio. Le stampe di quadri di Monet scorrono ai miei fianchi, ma io non le guardo. Prima non le avevo nemmeno notate. A dire il vero non riesco neanche a ricordarmi come io sia entrata qui dentro, ma so che è stato un errore. Adesso devo correre alla lavanderia, se mi sbrigo a prendere l’autobus forse riesco a non arrivare in ritardo.
Scendo le scale due a due, galoppando. Il mio lavoro qui è fallito. A dire il vero, è proprio questo il bello di essere sommersa dalle occupazioni. Se non smetti mai di lavorare, qualsiasi compito diventa una missione. E per una missione sei disposta a digiunare, lasciarti giudicare, patire il freddo dei termosifoni spenti. La mia missione è dedicata a mio figlio, le petit Gaston. È fallita perché ho scoperto che era vero, quella carogna antisemita non può fare la felicità del bambino. L’amore della mia vita aveva fatto bene a tagliarlo fuori dalla nostra vita, è stato tutto inutile.
Non credo che Monsieur Gaston abbia capito il motivo per cui mi sono presentata in tuta da ginnastica, ma non mi importa. Proprio no, anche perché, considerando tutto quello che mi ha descritto il mio amore, non posso aver spinto Monsieur Gaston a cambiare opinione sugli ebrei. Né sui ciccioni, e neanche sulla razza umana.
Ma so che prima o poi, magari mentre lui sta insultando qualcuno o si sta isolando come faceva già ai vecchi tempi, questa storia insignificante lo colpirà. Come un pugno in faccia, come un proiettile sparato in petto dalla mafia francese. Le Milieu, così la chiamano: sono informata sulla mafia francese per via di quello che è successo al mio amore. Esatto, proprio come lui si è beccato quella pallottola per i troppi debiti, suo fratello un giorno sarà trafitto dalla poesia dei termosifoni spenti. Il freddo passa, l’apparenza muore.
Monsieur Gaston si ricorderà di questo colloquio, così strano, e se non altro sarà una persona diversa. A me non importa più. Forse un giorno persino quella carogna arriverà a capire perché sono andata da lui in tuta, ma io e il piccolo saremo già lontani. È giusto che Monsieur Gaston soffra.

Esco dal portone dell’ufficio, non faccio caso allo sguardo indagatore del portiere. Non ho bisogno di qualcuno che mi tenga aperta la porta, sono troppo di fretta. Una tuta è l’ideale se ogni tuo secondo è una gara con il tempo.
Raggiungo di corsa la fermata dell’autobus. Eccolo, laggiù che arriva, questa dovrebbe essere la linea che passa anche davanti alla vecchia clinica del mio amore, ma non mi importa più. Una volta era doloroso vedere queste strade, non riuscivo a scacciare il ricordo di quella sera in cui lui mi aveva detto “Fais attention”. Ma ora è diverso. Ora vivo per mio figlio.
Spesso mi chiedo se tutta questa fretta abbia davvero senso, ma la risposta è proprio questa. La risposta piange ogni mattina per il mal di pancia se non giochiamo alle costruzioni.

L’autobus arriva alla fermata, rallenta, è davanti a me. Non fanno in tempo ad aprirsi le porte che io sono già salita con un “Pardon”. Trovo subito posto a sedere. La mia fretta non potrebbe avere più senso: l’unico obiettivo è regalare a qualcuno un mondo senza bugie. Senza apparenze. Voglio che mio figlio possa fidarsi di me, perché io non potevo fidarmi della persona che più amavo.

Mon petit, un giorno ti insegnerò che l’amore è fiducia. Ti dirò che questo è un dato di fatto.
Sapevo che Monsieur Gaston è un antisemita, ignorante e carogna: il mio amore, quando era ancora vivo, non voleva che lo conoscessi. Mi aveva detto di lasciar perdere, che non sarebbe stata una buona idea, soprattutto perché io sono ebrea.
«Sai, lo dico per lui. Gli voglio bene, è fatto così, ma è limitato. Non voglio che ti conosca. E non voglio che lui,» aveva aggiunto appoggiando la mano sul mio pancione. «Non voglio che il nostro piccolo lo conosca.»
E insistere non era servito a nulla, anzi l’amore della mia vita aggrottava le sopracciglia ogni volta che accennavo all’argomento. Avevo acconsentito, il piccolo non avrebbe conosciuto suo zio: gli unici rapporti li manteneva il mio amore, andando a cena dal fratello quasi ogni sera. Non riusciva ad abbandonarlo completamente, anche se stava costruendo una famiglia alle sue spalle. Gli comprava sempre la stessa torta, ora non mi ricordo quale fosse, a quei tempi il denaro non era un problema.
Ma ora, dopo tutto quello che era successo, dopo un anno intero, volevo appurare che l’amore della mia vita mi avesse detto la verità.
L’amore è fiducia, mon petit. Ma mi sembrava sbagliato tagliare quello zio antisemita fuori dalla tua vita. Eppure forse avrei dovuto fare così. Forse no. Fidarsi del mio amore era la scelta giusta? Non sono più sicura di nulla.

Monsieur Gaston, avrei dovuto prendere scelte diverse? So che la vita è dura, che il mio amore era l’unica persona che ti tenesse compagnia, che senti la sua mancanza tanto quanto me. So tutto, ma non so chi sei tu.
So come usare il vapore per stirare una camicia, ma non so chi sei tu. So dove le mamme tengono di solito i pannolini per i loro bebè, ma non so chi sei tu. So come rispondere quando un cliente riporta indietro il piatto, so mantenere la calma in una rissa tra ubriachi, so come contrattare il prezzo di un paio di jeans usati. So tutto, ma non so chi sei tu.
Sei uno stupido razzista, ma chi sono io per tenerti nascosto tuo nipote? So che mi trovo seduta su questo autobus, che sto mi sto dirigendo verso uno dei miei posti di lavoro e che lo sto facendo per mio figlio. Ma non so chi sei tu. E a dire il vero non so neanche più chi sono io.

Il pullman si muove veloce, mi fa domande. La lavanderia si avvicina, com’è pccolo questo quartiere, posso solo pensare. Adesso siamo a un angolo di strada, a quell’angolo di strada da cui la polizia mi ha chiamata un anno fa.
La sera in cui l’amore della mia vita mi aveva detto “Fais attention”, quella sera tremenda, credo fosse stato allora che si era reso conto di essere in pericolo di vita. Mai giocare a Piquet con mazzi truccati, mai contrarre debiti con il Milieu. Forse era stato in quel momento che aveva capito che sarebbe morto. Aveva il volto pallido per la paura, diceva che non poteva dormire a casa con me, che l’avrebbero cercato. Così si era allontanato nella notte. “Fais attention”… e aveva passato la notte da suo fratello.
È stato dopo quella notte che ha cominciato a chiudere i conti della clinica per trasferirsi con me in Italia. Aveva smesso di portare i documenti con sè, non voleva essere motivo di scandalo se mai gli fosse capitato qualcosa. Viveva a tu per tu con il proprio fantasma.
Il bambino sarebbe dovuto nascere a Firenze, ma il progetto del mio amore è stato troncato troppo presto. Teneva in tasca solo un cartoncino con il mio numero di telefono: quando hanno trovato il corpo qui, in Avenue de Tourville, hanno chiamato me. Non suo fratello.
Per questo ho sempre un colpo al cuore quando passo davanti alla clinica, davanti a questo angolo di strada. È difficile vivere in un quartiere così piccolo: tutto mi grida che dovrei andarmene, tutto mi ricorda di lui. Le rotaie dei tram e le foglie che sembrano baffi e tutte quelle baggianate che si dicono in questi casi. Però è vero e non posso fare a meno di riportare alla mente tutto questo, oggi che finalmente ho conosciuto l’altro Gaston. Mi rilasso sullo schienale e cerco di non guardare fuori. Mi sistemo una ciocca di capelli, mi gratto la guancia, cerco di non tradire il mio nervosismo. Giganteschi cartelloni pubblicitari scorrono ai miei fianchi, ma per quanto mi riguarda potrebbero essere benissimo altre stampe di Monet. Niente ha importanza mentre penso che l’amore della mia vita non era infallibile. Il mio amore ha sbagliato. Cosa sto facendo? Anch’io sto sbagliando, questo autobus sta andando nella direzione sbagliata, devo dare una svolta alla mia vita e devo farlo per il mio bambino. Il mondo è un posto sbagliato.

E come potrebbe essere altrimenti, quando è una vita intera che mi raccontano bugie?
Mi hanno detto che a uccidere il mio amore sia stato il Milieu, ma la verità è che si è fatto fuori con le sue stesse mani. È stato schiacciato sotto al peso delle proprie bugie.
Adesso ho capito qualcosa.  Anche se è stato lui a chiedermi di farlo, non posso essere io a tenere in piedi il castello di quelle menzogne. Dicendo a Monsieur Gaston che cerco lavoro, nascondendogli suo nipote, non faccio altro che irrobustire le stesse bugie che hanno ucciso l’amore della mia vita. È vero, riguardo al fratello antisemita e carogna non si sbagliava, ed era comunque buono a sforzarsi di non lasciarlo da solo. Ma avrebbe dovuto provare lui stesso a cambiarlo. Se non per se stesso, per il bambino che stava per nascere.
Non è con una storia toccante sui termosifoni che si cambia la vita di una persona. Posso essere io a renderlo un po’ meno carogna, o almeno devo provarci. Non basta pensare “carogna, antisemita e ignorante”, devo dirglielo in faccia per aiutarlo a migliorare.
Domani pomeriggio mi darò malata alla lavanderia, tornerò nell’ufficio di Monsieur Gaston e gli porterò suo nipote. Deve conoscerlo, deve sapere. Non voglio essere un’altra carta bugiarda di questo mazzo truccato.

Vedo dal finestrino che il sole sta già calando, sono in ritardo. Mi aggrappo a un sostegno dell’autobus e guardo l’orologio. Sì, la lavanderia ha già aperto da cinque minuti, ma ora non mi importa. Ho appena fatto una scoperta che stravolgerà le mie giornate. Un po’ più costruzioni, anche se starò al freddo, e un po’ meno lavoro. Se non riuscirò a comprare qualcosa al piccolo, gli dirò che non ce lo possiamo permettere. Il trionfo della verità, la disfatta dell’apparenza.
Niente resta nascosto per sempre. L’amore della mia vita voleva nascondere il gioco d’azzardo a me, nascondere me a suo fratello, nascondere suo fratello a nostro figlio. Ora spezzerò questa catena.
Prima o poi la verità salta fuori. Quando meno te lo aspetti, quando giri l’angolo in Avenue de Tourville, nel tuo piccolo quartiere. Magari proprio quando stai andando a chiudere i conti della clinica che hai aperto per riciclare il denaro sporco. Recuperare i soldi, ficcare tutto in una valigia e partire per Venezia, o per Firenze, quello è il tuo programma. E invece no. La verità decide di venire allo scoperto proprio quel mattino. Sbuca e ti spara addosso tutte le bugie che hai raccontato a tuo ratello, alla tua donna incinta e soprattutto a te stesso. È la fine. Te ne rendi conto appena senti lo sparo, sai che è tardi e non hai bisogno di spiegazioni. Nel giro di poco, anziché a Firenze, sarai due metri sottoterra. Certo, puoi chiamarlo “Milieu”, puoi dare la colpa al mazzo truccato, puoi persino dire che in fondo non avevi mai avuto cattive intenzioni. Ma mentre te ne vai non puoi fare a meno di pensare che lasci un figlio: lui ti sopravviverà, un giorno si chiederà che razza di uomo fosse suo padre, la verità verrà a galla.

Guardo i pochi altri passeggeri, seduti come me sui sedili di questo autobus. Chissà dove stanno andando, chissà qual è la loro storia. Le persone non sono mai quello che sembrano. Quando ho conosciuto il mio amore, non potevo immaginare delle sue bische clandestine. Bien sûr, avevo visto che giocava a Piquet con un mazzo truccato, ma non avrei mai sospettato di tutto quel denaro. Tutti quei debiti. Non avevo idea di che pasticci stesse combinando, non me ne parlava mai ma quello che si infilava in un cul-de-sac era lui.
Eppure, quando l’ho saputo, l’ho amato ancora di più per questo motivo. Le persone nascondono sempre qualcosa. Può essere un segreto da nulla o uno spaventoso, può essere un brutto vizio o un’abilità nascosta, non possiamo cambiarlo. Chiunque è molto più di quanto mostri: noi siamo il mazzo truccato di noi stessi. E il vero trucco è stracciare il vestito, dare risalto a quello che nasconde. La tuta da ginnastica si può togliere, ma il trucco di quel mazzo possiamo solo accettarlo. Sento che la mia vita e quella del petit Gaston riparte da qui. È una nuova fermata.

E a questa fermata, l’autobus si affolla. Sale una signora grassa, sembra affaticata. Mi alzo per lasciarle il posto.
«Si sieda pure, s’il vous plaît.» dico, e il mondo sembra già meno bugiardo.
Mon Dieu, com’è piccolo questo quartiere.


Oh là là, grazie per la lettura!

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