Illustrazione della gentilissima Ping Zhu. (Yo, thank you so much Ping!)
Da Monsieur Gaston a Dr. Gaston
Dr. Gaston
Clinique Confesseur des Salésiens
15, Avenue de Tourville
75007 Paris.
Mio caro fratello, mon cher frère.
Che cos’è la pazzia? Chi è pazzo, se non sa di esserlo?
L’unico familiare rimasto, l’unico volto amico in questa città di lupi, se ne è partito un anno fa per terre ignote. Fratello, quel volto amico eri tu. Fratello, dove sei?
Non so più in che lingua scriverti, non so nemmeno se considerarti ancora un Gaston. Ne è passata di acqua sul lungosenna, dai tempi in cui gestivi la clinica e venivi a cena da me cinque sere alla settimana. Mi mancano quelle cene, mi manca il sorriso di quando fingevi di non aver portato il mio dolce preferito anche quella sera.
«No, vecchia volpe,» mi dicevi. «Non posso mica comprarti un gâteaux basque al giorno, dovresti venire anche tu da noi nel centro di liposuzione.»
E come vorrei venirci adesso, ma so che non ti troverei. No, non sei lì. Almeno non nella stessa clinica a cui spedirò questa lettera, sperando che loro conoscano il tuo indirizzo attuale e possano mandartela. A loro l’hai detto, dove sei scappato? Eri il medico più rispettato del centro, non ti mancava nulla, eppure per te non era abbastanza. E chi sono io per chiamarti pazzo, se non so quali ragioni ti abbiano spinto ad allontanarti?
Mi sembra incredibile non sentirti ormai da un anno, da quel mattino in cui mi hai detto che ti sarebbe piaciuto andare a vivere in Italia. Mai avrei pensato che quel mattino tu fossi così serio da lasciare per sempre me e Parigi.
E come la lascerei anch’io, questa Parigi. Ogni giorno i boulevard non fanno altro che rigettarmi addosso il loro odio, i loro ciccioni, i loro ebrei. Ormai non mi vergogno più di dire ciò che penso, perché so che tanto non ci sarai tu a sentirmi.
Dimmi fratellino, senza di te è impazzita la Francia intera o sbaglio? Le ruote del tram scandiscono il tuo nome, le foglie più scure si dispongono a forma dei tuoi baffi. Parigi chiede di te. La verità è che ci manchi: a me come a ogni fibra di questa città. E se almeno ne conoscessi il motivo, allora potrei sentirmi comunque vicino a te, ma così sento solo vuoto.
E se non posso avere te, allora non voglio nessuno attorno a me. Stamattina ho mandato via la mia segretaria, Mademoiselle Alphonse, dopo neanche un’ora di lavoro. Quella stupida obesa è l’unica persona con cui io parli, e ancora non capisce il mio dolore: mi crede ricco e con un cuore di pietra. Non sa che sono al verde, che tutti i miei soldi arrivavano da te e dalla tua clinica, e quanto al cuore di pietra… Mademoiselle Alphonse non sa che l’ho mandata nel tuo vecchio centro di liposuzione in Avenue de Tourville, a farsi risucchiare il grasso dalla trippa, per amore del tuo ricordo. Fratello, dimmi se si può essere più folli di me! So che, con ogni probabilità, non ricevi più i guadagni del centro di liposuzione, ma non posso fare a meno di fingere che tu lo diriga ancora. E che stasera mi aspetti un gâteaux basque.
Allontano dalla mia vita chiunque, pensa che ormai non accetto quasi più colloqui di lavoro. Sfoglio i curriculum che mi mandano come si guarda un volantino dei supermercati scadenti. Non voglio altri occhi freddi nel mio ufficio, tantomeno se sono puntati sul vuoto del mio animo. Oggi si è presentata una ragazza, l’ho fatta uscire dopo neanche dieci minuti di colloquio: ha ammesso di essere ebrea. E non parlo per razzismo, avevo capito subito che non sarebbe stata una buona impiegata, riusciva a stento a parlare. E poi indossava una tuta da ginnastica: chi si presenterebbe in tuta a un colloquio di lavoro se non un ebreo, con la loro tirchieria? Sono circondato da gente di questo tipo. Mi sento come un soldato sotto il fuoco nel bel mezzo del territorio nemico. E tu, fratellino, sai che la mia sofferenza dipende da te e non rispondi alle mie lettere?
Vorrei che i nostri genitori, francesi e cattolici fino al mignolino dei piedi, come sai, fossero ancora qui per condividere il mio dolore. Se ci fossero loro potrei parlarne con qualcuno, saprei di non essere pazzo, ma ora non mi tiene più nulla. Perché sì, è dura non avere la minima idea di dove si trovi il tuo fratellino, sangue del tuo sangue. È quel tipo di pensiero che può farti diventare matto.
Ti ricordi quando da bambini potevamo ridere delle disgrazie dei grandi? Ridere della scuola, ridere dei ciccioni, delle ragazze. Ridere dei pazzi, te lo ricordi fratello, che sghignazzate che ci facevamo da piccoli quando vedevamo passare lo scemo del quartiere? Perché mamma e papà ci hanno insegnato che dietro ogni scemo c’è un quartiere, ma com’è piccolo il nostro oggi. Sì, com’è piccolo, se penso che anni fa ci pareva immenso, tanto da non sembrare più un quartiere ma una città intera.
Oggi è talmente piccolo che potrei cercarti in ogni vicolo, sotto la polvere e sopra i lampioni. Ma so che non ti troverei. Non ti cerco nella tua vecchia clinica, dove per abitudine continuo a mandare tutti gli obesi a farsi risucchiare, perché so che non ti troverei. Da quando sei partito, per l’Italia o per chissadove, il quartiere si è ristretto. È come quando mamma metteva i miei vestiti in lavatrice e diventavano così piccoli che potevi indossarli tu. E potrei cercarti anche lì, nella lavatrice, in ogni nero vortice di ogni inutile lavatrice di Parigi. Ma so che non ti troverei.
Questo quartiere è troppo piccolo, in realtà, perché mi sono accorto di qualcosa: da quando so che in qualsiasi suo angolo non ti troverei, lo scemo del quartiere sono diventato io.
Fratellino mio, perché il tuo vecchio numero di telefono è sempre staccato? Se hai cambiato numero, perché non mi hai avvisato? Dove sei? Di cosa vivi? Hai smesso di giocare a Piquet?
In queste notti mi sembra sempre più spesso di vedere la tua ombra rannicchiata sotto al davanzale, come quella notte in cui sei venuto a suonarmi al citofono, con il volto pallido. Quella notte in cui senza fare domande ti ho lasciato entrare anche se la tua camicia puzzava di vinaccio da quattro soldi e avevi l’aria di un ebreo braccato. E ho sempre rispettato la tua decisione di non spiegarmi cosa ti fosse accaduto quella notte, fratello. Ho finto di crederti quando dicevi di non ricordare nulla, e per cosa? Per essere abbandonato in questo modo, in una realtà che mi odia?
Mi danno dell’antisemita, dell’ignorante, della carogna. Ma l’unica definizione che davvero mi calza a pennello ora è “pazzo”. E chi sono i veri matti, se nessuno da sé può capire di esserlo?
Mio caro fratello, mon cher frère.
Non ho mai preteso di indovinare i tuoi segreti. E so che ne hai avuti parecchi, per parecchio tempo. L’amore è anche questo: fidarsi ciecamente di chi per te ci sarà, credere che non possa dirti ciò che non ti dice, dormire sogni al sapore di gâteaux basque al suo pensiero. Ma quale verità puoi nascondere, quale confessione può essere così sconvolgente da spaventare chi ti ama? Io non avrei indietreggiato, sappilo! Antisemita, ignorante o carogna, ma innamorato di mio fratello!
Innamorato della patria, della mia famiglia.
Non mi importa se detesto il mio lavoro, o se la mia segretaria è brutta e obesa. Non capisco nemmeno io i bilanci che compilo, ordino e smisto, tutti quei numeri non mi dicono nulla, ma so che c’è altro. Quando prego per te, ogni sera, ho paura. Lancio in continuazione sguardi nervosi alla tua ombra, nascosta sotto al davanzale, e credo di impazzire. Forse pazzo lo sono già, forse lo sono sempre stato. Ma so che da qui, a centinaia di chilometri da te, l’unico modo che ho di aiutarti è sperare.
Spero che tu stia bene, anche se non ti fai sentire, che tu sia andato ad abitare in Italia come desideravi. Spero che tu non senta la mia mancanza quanto io sento la tua. Che la vita ti sia clemente, anche se io non avrò l’onore di essere al tuo fianco, più di quanto lo sia stata con me. Spero che tu non abbia mai a patire la solitudine che si prova in un quartiere dominato da ebrei in tuta da ginnastica.
Spero che qualsiasi scelta ti abbia allontanato da Parigi, un anno fa, non fosse stata presa per colpa mia. Che tu non abbia mai più il volto pallido per la paura, che le foglie continuino a mostrare i tuoi baffi.
Spero per te questo e molto altro.
Mio caro fratello, mon cher frère, spero che le tue speranze coincidano con le mie.
Ed è per questo che anche oggi scelgo l’amore. Nonostante la rabbia per la tua fuga, nonostante la sofferenza per la tua mancanza, ti perdono. Non capisco quale mistero possa spingerti a comportarti in questo modo, a rinnegare le tue origini, a non dare notizie a chi ti vuole bene, ma capisco che così dev’essere. Per amore fraterno, è giusto che io patisca il rovescio di tutto ciò di cui sono stato benedetto.
Il buon Signore mi ha fatto dono di un fratellino straordinario come te, che è sempre stato impossibile non ammirare, e il Signore può allontanarlo da me. Se tu non fossi stato un compagno di giochi insostituibile prima e un adulto su cui fare affidamento poi, allora non soffrirei. La mia disperazione è soltanto il riscatto del dono meraviglioso che ho ricevuto quando sei nato.
Decido di comprendere l’incomprensibile, e come tante volte ho finto di crederti, questa volta fingo di capire: accetto la recita, sono pronto. Se vorrai tornare, sappi che ti aspetto a braccia aperte. Tutta Parigi ti aspetta.
Non vedo l’ora di accoglierti in questa casa: è stata vuota per troppo tempo. Mangeremo un altro gâteaux basque e rideremo, come ai vecchi tempi. Rideremo dei pazzi.
Je t’aime. Sempre tuo,
G.
Terzo racconto: Mon Dieu – L’ebrea in tuta da ginnastica
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