un racconto di Giorgio B. Scalia,
editing di Alessandro Tesetti.
Voi mi conoscete come Moby Dick, ma molti anni fa, non saprei dire quanti, il mio nome era ancora Gaetano Ficuzza. Avevo pochi, anzi, pochissimi soldi e nessuna abilità particolare. Pensai di lasciare lo scantinato che chiamavo casa, e che dividevo con mia madre, e di cercare un posto tutto per me alla luce del sole. Volevo vedere il mondo: o andavo via da quel posto buio e sottoterra, oppure mi sarei sparato un colpo in testa con la sparachiodi di mia madre. Senza dirle nulla, presi il largo per il mondo, all’alba. E non c’è stato niente di più straordinario di questo.
Se tutti gli uomini avessero anche solo la metà del dono che ho io, si accorgerebbero di avere per questo mondo i miei stessi sentimenti (applausi).
Mia madre, Sara Ficuzza, faceva la buttana al porto di Palermo. Era una donna superstiziosa e ignorante, pensava che fossi cattivo o che lo sarei diventato di sicuro, se qualcuno avesse giudicato il mio aspetto.
Quando all’alba ritornava dal molo e mi trovava ancora sveglio a guardare televendite, illuminato dal televisore, faceva un sussulto e, con una mano sulle tette appena sbavate da qualcuno, urlava: «Maria Santa! U diavolo c’ha messo mano». Per tutta la vita, non mi fece mettere piede fuori di casa. Credeva che il sole mi avrebbe carbonizzato, come un vampiro. Perciò tutto quello che sapevo del mondo, lo sapevo dalla televisione, e fu lì, che dopo mezzanotte, scoprii il porno. Avevo sette anni.
«Questa parte su mia madre la taglio. È troppo… e poi non ci crederebbero, come non crederebbero mai che la stronza mi lasciava al buio perché ci vedevo benissimo, diceva, come i gatti, e faceva scongiuri e corna quando mi sedevo a mangiare con lei. Dov’ero arrivato? Ah ecco».
Salpai verso il porto di Genova, per poi andarmene ancora più a nord.
Ma le cose non andarono come avevo progettato. In pochi giorni finii i soldi e rimasi a Genova. Lavoravo la notte come scaricatore di porto. I miei colleghi mi chiamavano: «Secchio di sborra!» e nomi così. Conclusi che mia madre aveva ragione, tutti mi giudicavano. Ero diverso, però quel tipo di diverso che fa invidia… solo che non lo sapevo ancora (metti le mani sui fianchi e osserva la platea con arroganza).
Qualche sospetto l’avevo avuto guardando i porno alla televisione. Da piccolo, vedevo certi omoni scoparsi le ragazze con le tette enormi e fingevo che il loro coso fosse il mio. Non ci voleva tanta immaginazione: bastava fingere che avessi già un bel cespuglio, ma per il resto l’avevo come il loro.
E pensai: Ho un problema! Ero bianco bianco, con gli occhi rossi, pure quello era eccessivo.
Poi una notte, avevamo appena finito di scaricare un container, mi misi a pisciare dalla banchina. Lo scroscio fu così ascoltato che attirò l’attenzione di Tommaso, il capo scaricatore. «Chi ha aperto la pompa?» Mi voltai verso di lui, che avevo ancora la minchia in mano, e quello gridò: «Maria quant’è!», e poi mi fece un applauso, come si fa alla gente di talento e importante. «Il cugino di mia nuora lavora a Torino, nel cinema. Tu hai il dono», mi disse. E il giorno dopo presi un treno e mi presentai nello studio di Ugo Bassi. Sulla porta del suo ufficio c’era scritto “Langhe Adult Film Production”. Colgo l’occasione per ringraziare Ugo e Tommaso, senza di loro sarei ancora a scaricare casse al porto di Genova (manda un bacio e aspetta l’applauso).
Ugo, senza giri di parole, mi disse di tirarlo fuori e, quando glielo sbattei sulla scrivania gli uscirono gli occhi di fuori, scattò in piedi per stringermi la mano e mi disse che ero assunto all’istante.
Mi domandò se avevo già pensato a un nome d’arte, io feci no con la testa e allora mi battezzò (rivolgi il microfono verso il pubblico per fagli urlare: Moby Dick!). Te lo ricordi, Ugo?
Da quel giorno cominciai a girare un’ondata di film importanti. Ho lavorato con ognuno di voi, e vi dico grazie (e applausi).
Per chiudere, voglio ringraziare gli Italian Porn Awards per avermi assegnato questo premio alla carriera (alza il Fallo d’Oro al cielo).
Grazie, grazie, grazie a tutti!
Minchia che discorso che ho scritto! Certo, ‘sta spazzola è troppo leggera, quell’affare peserà perlomeno mezzo chilo. Magari potrei chiudere con una battuta, vabbè la improvviserò sul momento.
Oh Gaeta’, ma chi te lo doveva dire che saresti arrivato fin qui? Guardati, ‘ste luci attorno allo specchio ti fanno un colorito speciale, splendi proprio, sei una star.
Ma ci pensi?
«Chi è che mi scassa la minchia a quest’ora? Ancora!? Arrivo, arrivo. E un minuto, sono nudo!»
«Ninuzzo, picciruddu mio».
«Mamma… come m’hai trovato? Vattene!»
«Aspetta un minuto, fammi entrare».
«Buttana che non sei altro. Fosse stato per te, sarei morto in quello scantinato di merda!»
«Sbagliai, lo so, ma lo feci solo per il tuo bene, picciruddu mio… Sono sempre la tua mamma. Puoi perdonarmi?»
«Io orfano sono».
«… Fammi entrare».
«No!»
«Pagai tutti i miei soldi per venire fino a qui e tu così mi tratti? La casa non ce l’ho più, non lavoro da un sacco di tempo. E quello che ho fatto l’ho fatto con l’elemosina.».
«Te ne devi andare. Via!»
«Almeno dammi qualcosina. Sentisti il freddo che fa fuori?»
«Ah, vuoi soldi? Slacciami la vestaglia, allora, e mettiti a quattro zampe come la cagna che sei. E suca. Amunì, prima che ci ripenso e ti butto fuori a calci in culo, suca buttana».
«Se me lo chiedi tu picciriddu mio… ».
tutte le fotografie di David Billet.