L’albergo

un racconto di Cristina Pasqua,
tutte le fotografie di Gianmarco Aquilani.

Le tre del pomeriggio e un vento freddo piega le fronde dei filari. In alcuni tratti dove l’ombra s’addensa, la statale ha il manto ghiacciato.

«Ho bucato». 

«Di nuovo?»

«Sì, di nuovo».

«Forza, salta su!»

Eugenio monta sgraziato e il Gruzzo perde l’equilibrio. Si tiene a malapena, le suole sfiancano lo sterrato e alzano un velo di polvere. «Finiamo col culo per terra così», dice e tira muscoli e freni.

La statale si srotola cupa di nubi, così basse che quasi si sporcano sull’asfalto. L’albergo, chiuso da anni, si profila lontano, in una distanza schiumosa di nebbia. 

«Guarda che piove. Muoviti, Gruzzo».

«Vuoi pedalare tu?»

«Col cazzo che ci penso. Pesi un quintale».

«Parla per te, Muschio».

A Eugenio gli dicono Muschio. Sarà l’età, una fase di passaggio, ma pare abbozzato appena. La faccia liscia liscia, le labbra imbastite, solo due punti lunghi e tirati, il naso che svicola sfuggente e indefinito come certi pupazzi di pezza. 

Le tre del pomeriggio e nell’aria intrisa d’inverno s’addensa tutto il peso della giornata. Muschio s’immagina arrivato a sera e già cigola sulle molle della branda, appoggiato al tramezzo di fortuna tirato su dai suoi per ricavare una stanza. 

«Eccolo», dice l’altro all’improvviso in un ansimare di pedali. Eugenio tira il collo in avanti, oltrepassa la spalla dell’amico e lo vede. L’albergo è un casermone fine anni cinquanta, addossato a una pompa di benzina, l’intonaco è annerito dalla bava umida dei campi. Alla sua chiusura, che risale a una decina di anni fa, seguì quella del ristorante. Stessa sorte toccò al distributore. A passare, qui, ci passano in pochi. 

Al piano terra, che si estende in lunghezza, seguono altri tre piani, a chiudere la terrazza dove la sera riluceva la scritta “Albergo”. Il muro perimetrale è stropicciato, l’intonaco crepato come una delle tante mele marce dell’edilizia di quegli anni. Statale a parte, si spalleggiano campi di bietole e mais. Lontano, il ponte di ferro sbocca rasposo nella zona industriale, dove c’è lo sfascio, il meccanico e il discount un paio di chilometri più in là.

«Gruzzo, l’hai la fionda?»

«Ce l’ho», dice, ma insicuro porta una mano alla tasca del trapuntino e, quando ne avverte il contorno, sfiata. 

«Botti li hai fregati al tu’ fratello?»

«Quattrini ne ha voluti. Mi devi cinque».

«Non ce l’ho».

«Vorrà dire che non spari il grande botto».

Il silenzio lì intorno si appiccica alla bocca del Gruzzo, agli angoli delle labbra, la stessa colla ispessita di quando parla troppo e a sproposito.

«Liguori dice che si entra facile. La porta grande è chiusa, ma dietro si passa». Pedala, ansima. «Pesi, eh?»

«C’è la rete», dice il Muschio. «Cinquantadue pesavo l’anno scorso. Da lì sulla bilancia non sono più salito».

«Dice che l’ha tagliata il Silvi, amico suo».

«Conosco, lo stesso dello smorzo. Le camere d’aria me l’ha date lui. Capito il tipo?» 

«Era meglio portarsi cesoie e tenaglie, cose così».

«Ce l’ho».

«Cosa?»

Un animale scuro gli attraversa la strada. Il Gruzzo perde l’equilibrio, la ruota finisce nel canale di scolo, loro due sull’asfalto fradicio. 

«Dio stanco, Gruzzo che fai?»

«È la catena. Due calci e torna a posto, ma dopo», dice il Gruzzo. «Restano pochi metri, a spinta si può fare». 

Avanzano cupi come i piatti della minestra sulla tavola a sera, il Gruzzo spinge la bici, le mani strette al manubrio, la catena sbrellata che esce di sede di continuo. È la condensa del fiato a indicargli la strada fino all’Albergo. Il Muschio lo segue.

«Ti muovi?» fa il Gruzzo che non lo sente alle sue spalle. 

Muschio fa sì con la testa. 

In effetti, il passaggio c’è. Il Gruzzo appoggia la bici al muro mentre Muschio allarga la rete. Indossa i guanti da sci, li ha ripescati la sera prima tra gli addobbi di Natale e la canfora sul ripiano alto dell’armadio. Senza guardare, ha tirato fuori proprio quello che cercava. Le mani devono stare al caldo. 

Scendono una piccola rampa, entrano nel garage al piano seminterrato. 

«E queste?», dice Muschio.

«Le macchine?»

«Macchine, sì».

«Parcheggio. Magari qualcuno si fa pagare».

Salita una rampa e spinta a fatica la porta antipanico, si ritrovano nella hall. In mezzo ai calcinacci, ai lati della reception, due file ordinate di piante ornamentali. Sono finte, di plastica, per questo si conservano bene. 

«Ti ci hanno mai portato a mangiare qui?»

«No», dice il Gruzzo scontroso, già sapendo che Muschio ci sarà stato sicuro almeno un paio di volte. 

«Mio padre ordinava sempre il carrello dei bolliti e per me l’orecchia d’elefante. È pieno di specchi così, là dentro», e arraffa l’aria con le dita.

«Andiamo, allora. Non perdiamo altro tempo».

Si appoggiano con le spalle alla porta che dà accesso alla sala ristorante. 

Tempestate di specchi, le pareti replicano tavoli, finestre, lampadari a gocce di cristallo e ombre sul soffitto. Bruniti, macchiati, le cornici laminate in foglia d’oro, gli specchi sono di fogge diverse, alcuni di linea morbida, altri squadrati, ce n’è uno lunghissimo che corre lungo tutta la parete. 

«Sei lì, lì e lì», dice Muschio con il dito teso. 

«Sei coglione. Girare con te è scoglio», sbuffa il Gruzzo.

La sala è pronta, le tavole apparecchiate, le tovaglie bianche e tirate, i tovaglioli e i bicchieri e le posate al loro posto, ma il Gruzzo e Muschio non ci fanno caso.

«Devo pisciare».

«Vai, allora. Muoviti», dice il Gruzzo seccato. 

«So dov’è il bagno».

«Scoglio sei e scoglio rimani», ripete mentre l’amico si dirige verso la porta con su scritto Servizi in fondo alla sala. 

«Fanno cento lire».

«Cosa?»

La donna indossa un camiciotto verde scuro, lo stemma dell’albergo ristorante in rilievo, ricamato in oro sulla tasca. C’è uno stambecco in bilico su un crepaccio e due costoni di roccia. Albergo c’è scritto.

«Devi andare al gabinetto, giusto?»

Muschio fa sì con la testa. 

«Allora paga. Funziona così».

«Ma il ristorante non è chiuso?»

«E tu cosa ci fai qui allora?»

«Sono con un amico».

«E devi pisciare, giusto?»

«Sì, è così».

«Intanto paga».

Muschio tira fuori un euro dalla tasca della giacca a vento. La vecchia Ellesse gli va grande, era di suo fratello Matteo, ora è sua, almeno questo inverno lo deve passare. 

«Ecco», dice allungando la mano. La donna prende la moneta e la osserva sconfortata. «Cos’è? Un gettone della sala giochi?»

«È un euro».

«Forza, vai al gabinetto e fila. Non ti voglio tra i piedi».

Muschio spinge la porta ed entra. C’è odore di disinfettante e anticalcare. La ceramica è pulita, c’è pure un rotolo di igienica ma non gli scappa più. Ci rimane parecchio là dentro, la carta a foderare il water e lui con i gomiti sulle cosce in attesa che lo stimolo torni.

«Ma dove cazzo sei finito», dice il Gruzzo. Alla fine, non vedendolo tornare, l’ha raggiunto in bagno. 

«E la signora?»

«Quale signora?»

«C’era una donna qui. Bassa così, con i capelli corti, castani. L’hai vista?»

«Sentiamo e che faceva?»

«Chiedeva soldi per andare al gabinetto».

«Andiamo, forza. Hanno già servito a tavola».

«Come?»

«Come, come… ho ordinato, ecco come. C’era il cameriere, mi ha chiesto cosa gradivamo per pranzo».

Muschio non riesce a parlare, gli si è incollata la lingua al palato.

«Allora è vero che dicono che è stregato».

«L’albergo?»

«Sì, l’albergo».

«No, il cameriere mi ha detto che è la nuova gestione».

«E i calcinacci?»

«Quali calcinacci?»

Il silenzio di prima si stempera e spezza. La sala si gonfia di voci, un’alluvione di parole, risate soffocate, rumori di masticazione e gridolini e schiocchi da buongustaio. Nella sala tutti i tavoli sono occupati. 

«Non è buona educazione», dice un commensale. Indossa un abito scuro, i pochi capelli rimasti rigano il cranio sbucciato. La donna al suo fianco annuisce, prima di portarsi alla bocca con le dita un pezzo di carne. «È il boccone del prete», dice e scoppia a ridere. Una bambina si alza da tavola e li raggiunge correndo e inizia a girargli intorno. Suo fratello piccolo si alza a sua volta e la imita. «Lara, torna qui e bada a Gilberto», la richiama la madre. I ragazzini sono vestiti a festa. «Pare una comunione», dice il Gruzzo. Muschio non risponde, ha gli occhi troppo grandi e la gola in secca.

Lara indossa un vestito rosa con una pioggia di fiori di tulle in rilievo. Sotto la salvietta che copre lo sparato del piccolo Gilberto s’intravede una camicia bianca e un gilet blu. 

«Unitevi a noi», li invita una donna in velluto liscio e nero. «Non state lì da soli, venite».

Muschio e il Gruzzo si accomodano uno di fronte all’altro, in mezzo a un gruppo di buontemponi. Devono aver alzato il gomito perché l’uomo a capotavola ha il viso arrossato e il naso segnato dai capillari. Si allenta il nodo della cravatta, si sfila la giacca, la appoggia allo schienale. «Adesso, attenti», dice alzando il bicchiere. «È oggi che ricorre il giorno, 27 gennaio 2000. Con la nuova moneta, non s’arrivava a pagare le spese, le fatture s’ammucchiavano. Benetti Marica è stata la prima a perdere il posto. All’entrata, sul tavolino, ho messo un bussolotto. In cucina ho detto al Moretti di regolarsi con le porzioni. Ho cambiato fornitori, verso l’ora di chiusura faccio un giro ai mercati e al discount all’angolo di via Ripa. Non dobbiamo dimenticare, vero Usmano?»

«Vero».

Quello che ha chiamato Usmano si alza in piedi a sua volta. 

«Niente era a norma. Abbiamo provato a fare le cose per bene, ma la coperta era troppo corta e i tempi della burocrazia troppo lunghi».

Muschio guarda il Gruzzo in cerca di risposte, ma quello scuote la testa. 

Il purè è freddo e colloso, la carne nervosa e senza sapore, la panatura si stacca e rivela la trama grigia della fettina.

«Uguale a quello delle bustine che fa mia nonna», dice il Gruzzo e Muschio abbassa gli occhi sulla sua forchetta infilzata nella purea. 

«Come alla mensa della scuola», dice. 

«La qualità è quella che è. Non si possono fare miracoli», dice Usmano.

Italo, il benzinaio, staccava alla mezza ed entrava nel ristorante seguito da una scia di ottani. La pompa di benzina non perdonava. A sera, con la spazzola, non riusciva a cancellare dalle mani i pieni della giornata. Le tempie gli bruciavano e in gola gli s’era annidata una scolopendra a grattargli l’ugola e le pareti e rendere difficile perfino la deglutizione. 

«È un fatto che ci siamo ritrovati. Qui, di nuovo, tutti insieme. Siamo o non siamo una squadra?» Italo ha una voce vetrosa, scricchiola e s’impunta.

Ora sono tutti in piedi. Schiacciato tra una signora e uno che pare proprio la copia di Liberti, l’edicolante morto sei mesi prima per un colpo, il Gruzzo cerca gli occhi di Muschio. Non se la passa meglio. Gilberto gli tira il pizzo della giacca e gli dà dei gran calci sugli stinchi. 

Lombo era sempre stato un crocevia depresso. La nuova arteria, una promessa di crescita, aveva dissodato campi e portato il cemento dove non c’era con una ventata di finto benessere. Disboscata, la collina era franata. L’acqua s’era fatta nera, si era portata via case e cristiani. Anche certi parenti alla lontana del Gruzzo non s’erano più ritrovati. Ne erano passati di anni ma in paese si respirava muffa e non solo nelle cantine. Prima della grande pioggia avevano tirato su le villette a schiera su Colle Rivolsi e spianato a valle per lasciar spazio alla zona industriale. Ai primi rovesci, era venuto giù tutto. L’Albergo era rimasto in piedi, dicevano al miracolo, anche se lì, per anni e anni, non entrò più nessuno. Il ristorante campò per qualche altra stagione, poi si rassegnò a fare la stessa fine. A parte certi agenti di commercio, l’ingegner Corbelli e il geometra Strati, le tavole apparecchiate restavano vuote. 

I commensali, in fila indiana, iniziano a sfilare nella sala. Ci fossero coriandoli, sarebbe carnevale. La signora agita la borsetta e manda in frantumi il primo specchio. Gilberto con la fionda del Gruzzo e il tappo di un Grignolino colpisce in pieno quello lungo. Una crepa si apre a sinistra, in alto, e prosegue fino all’altro lato. Italo tira fuori una chiave inglese e fa rovina di tutti gli specchi che incontra sul lato breve della sala. Lara, la ragazzina con il vestito da primavera, si occupa di piatti e bicchieri. Un uomo basso e su di peso inizia a correre come un forsennato spingendo il carrello dei bolliti fino che non lo fa schiantare contro la parete. Anche Muschio e il Gruzzo si danno da fare. Il Gruzzo stacca un estintore e lo tira contro una finestra, che subito s’incrina e spacca con grande fragore di vetri. Muschio intanto lancia posate a caso. Una donna cade, ma si rialza. «Fai attenzione, ragazzino», dice e riprende da dove aveva interrotto la sua opera di devastazione, tirare via tovaglie dai tavoli apparecchiati. Gilberto, nel frattempo, s’è arrampicato su un tavolo e ora, appeso al lampadario, si dondola urlando. Non resta niente di intero. Si cammina sui vetri rotti, sui cocci, cornici e occhi vuoti, le gocce di cristallo dei lampadari piovono come grandine dal soffitto. Il Gruzzo tira fuori il grande botto e un pacchetto di svedesi. Spazza via un cestello per il ghiaccio e una bottiglia e posiziona la fontana al centro, accende la miccia e s’allontana. Le tende s’infocano, le tovaglie s’infiammano, il fumo s’addensa, prende alla gola, leva il fiato, e la sala brucia. 

Usmano si sistema la giacca e s’avvicina ai due ragazzini. «Siete stati bravi», dice. «Non male per due come voi. Ora fate parte della brigata».

Nel momento in cui le sirene interrompono il fluire del torrente e bucano la patina untuosa di fuliggine, dell’albergo non resta che cenere. È notte fonda e tra i fumi che s’alzano dalle macerie e la bruma dell’inverno, il caseggiato sembra affondato in una palude. 

«È lo scherzo di un gadano», dice il brigadiere. «Di qua non passa nessuno».

«Magari cercava riparo. A notte picchia quassù. Avrà acceso il fuoco».

«Tutto è possibile. Cosa buona è che forse non c’è nessun piciu da tirare fuori». 

Il giorno dopo, con la luce e i cani, li trovano. Si capisce che sono due ragazzini. Sono neri e astiosi come la giornata, si tengono stretti, vicini, si toccano, s’impastano, un unico pezzo di carbone, a terra, contro la parete, neanche così lontano dalla finestra, a due passi dall’uscita. 

editing di Anna Chiara Bassan.

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