CRISANTEMI

un racconto di Nekros.

Dialogo con il Morto

Venerdì, 23.30

Inspiro, espiro. Inspiro, espiro. Serpenti di fumo danzano nella luce soffusa del bagno. Nascono nel buio dei miei polmoni per disfarsi nel buio del soffitto. Le note di Mind Flowers fluttuano nella stanza.

Pretty mind flowers
take a trip to the center
of your mind to your mind

Cerco il posacenere, spengo. Scivolo nell’acqua, immergo completamente la testa, conto. Mi sento rilassato, realizzato, ho raggiunto i miei obiettivi. Non ho problemi, tormenti, o paranoie e, per la prima volta, sono qualcuno. Cosa non ho fatto, cosa non ho sacrificato, per arrivare fin qui. Adesso, finalmente, piccoli sfizi mi hanno dato grandi soddisfazioni. Mi sento bene, sorrido in apnea. Riemergo dall’acqua e, dopo aver spostato una ciocca di capelli dalla fronte, riapro gli occhi. Lui è lì, seduto comodamente sul davanzale della finestra, le gambe a cavalcioni, la camicia, nera, completamente abbottonata. Testa accuratamente rasata, viso scarno e pallido, una cicatrice tra lo zigomo destro e l’occhio, nel punto in cui gli avevo sparato un mese fa. Gli occhi, neri come i pochi capelli sul capo, sono fissi nei miei. Ammicca, alza appena la mano in una parvenza di saluto, strascicato, noncurante. Dal taschino della camicia estrae un pacco di cerini, ne sfrega uno sul lato della scatola e accende una pipa raffinatamente intagliata. Sbuffa fumo denso; l’odore dell’hashish è pungente.

Letting only your conscience be your guide.

«Chi muore si rivede, eh?»
«Pessima. Non mi sei mancato.»
Sorride. Mi immergo nuovamente nell’acqua, con la speranza, riemergendo, di trovare la stanza vuota. Speranza vana.

«Non mi puoi evitare e non mi puoi uccidere. Senza di me non sei nessuno.»

«Quante volte abbiamo fatto questo discorso? Penso che sotterrarti sia stata una presa di posizione abbastanza definitiva. Ti ho già affrontato, e ho già vinto.»

«Vinto? Senza di me hai perso te stesso. Guardati, nudo, a masturbarti sulle tue certezze nella vasca da bagno. Mi fai schifo. La mia assenza ha corrisposto al periodo più vuoto della tua vita. I miei complimenti, campione. Nuove amicizie, nuove conquiste, nuovi traguardi. Nessun timore, nessuna incertezza, nessuna domanda. Perché non mi insegni a essere come te? Ti senti importante e rispettato al punto da non doverti più sforzare di indossare, ogni mattina, quella maschera che ti consentiva una parvenza di convivenza sociale. Adesso la calzi alla perfezione, sei diventato tu stesso quella maschera. Anzi, sei diventato la persona che, una volta, desideravi tanto essere. E cos’hai ottenuto?»

«Felicità… rispetto… sicurezza… e… tante altre belle cose che non potrai mai conoscere», ribatto, alle strette.
Ride, e di gusto.

Sacrifice! Of your ego!

«Chiamo cecità la tua felicità-regresso. È facile essere felici e sicuri con i paraocchi, quando smetti di osservare la totalità di ciò che ti circonda, di ciò che ti accade. Se smettessi di essere cosciente riuscirei ad esserlo anch’io, ma grazie a Dio non ho intenzione di svuotarmi per smettere di soffrire. Il tuo esempio mi basta e avanza. Sei così magnifico che non hai più bisogno di ascoltare altro che questa litania da falliti tutto il giorno, non hai più bisogno di leggere, non hai più bisogno di scrivere. Non hai più bisogno di pensare. Hai ottenuto la felicità e adesso sei, finalmente, come quegli stronzi che tanto odiavi. Anche quei fottuti fricchettoni degli Ultimate Spinach hanno ottenuto la felicità, prima di sbattere la faccia contro il freddo muro della realtà.» 

Cerco di aprire la bocca ma non riesco a emettere suono. Mi sforzo di non sentire più la sua voce, so che sta mentendo, non può avere ragione. Non può avere ragione? Non deve avere ragione. Non mi posso concedere il beneficio del dubbio, altrimenti è lui a vincere, mi ha già fregato troppe volte, devo soltanto zittirlo. Esco dalla vasca dandogli le spalle, ma, anche se non lo vedo più, so benissimo che scruta ogni mio movimento. Mi asciugo e alzo il volume dello stereo. Non lo sento più. Sapevo di potercela fare, in questo modo riusciamo a coesistere.

«Lo sai, vero, che non funziona?»

I am falling into the quicksand of my troubled mind

Non resisto più. Mi giro, d’impulso, e, con tutta la forza che ho in corpo, allungo in direzione della sua faccia il pugno destro, che schiva senza alcuna difficoltà. Ricambiando, in compenso, con uno sulla mia mandibola. Cado a terra, sbattendo la testa contro il lavandino. Fatico a tenere gli occhi aperti, ma riesco a distinguere perfettamente la sua figura che si accovaccia sulla mia, e la sua testa che si avvicina al mio orecchio.

«In fondo, lo sai, ti voglio bene, ma hai bisogno di essere disilluso. Dammi tempo fino a domenica notte. Poi, sarai libero di essere felice quanto vuoi.»

Gli occhi mi si chiudono.

Viaggio con il Morto

Sabato, 6.30

Il Parto.

Da quando ha perso i sensi sul pavimento ho vegliato su di lui tutta la notte, è così indifeso. Al primo raggio di sole che filtra dalla serranda il flauto di Pesi sul Collo comincia a diffondersi timidamente dall’altoparlante del cellulare. Apre gli occhi come fosse ancora immerso nella placenta. Ieri sera è morto anche lui e stamattina, finalmente, è rinato. La placenta non c’è più.

Sabato, 7.30

Il tram è vuoto. Lo sforzo che impiega nel partire dal capolinea in un metallico crepitio crescente fa sembrare l’ammasso di ingranaggi un essere vivo, sofferente e assonnato per il gelo mattutino. Mi sono seduto in fondo, nell’angolo sicuro, nell’antro lontano da sguardi indiscreti, rannicchiato come se cercassi di ritrovare il letto che stanotte mi è tanto mancato. Lui, invece, perfettamente composto, ha occupato un sedile di fronte al mio, tra quelli della fila successiva, dal quale mi fissa con un’espressione sorniona che non riesco a levargli dalla faccia. Almeno, grazie a Dio, sta zitto. Quando all’esterno i campi si fanno sempre più sporadici, la periferia grigia e silenziosa comincia a delinearsi e alla terza fermata i primi fantasmi di carne, spenti, si trascinano sul vagone, cercando meccanicamente un posto a sedere.

«Da punto a linea»

Rabbrividisco, la loro esistenza mi irrita. Non li conosco, non li ho mai visti, non sono mai entrato in contatto con loro, ma li odio. Li odio per il semplice fatto che esistono, e esistendo non mi permettono di essere l’Unico. È la prima volta, dopo troppo tempo, che sono tornato ad essere consapevole del fatto che non sono l’Unico. Da quando lui è morto, ho semplicemente vissuto come se lo fossi, l’immagine di me stesso che mi ero creato era modellata sul fatto che lo fossi. Sicuro e indipendente, ma illuso. Alla fermata successiva altra gente sale sul tram e invano cerco di annullarmi nel cappuccio nero, che si rivela essere troppo corto per coprirmi interamente.

Relazione. Mi urta, ma non posso evitarla. Mi soffoca, ma non posso uscirne. È tutta colpa di questo stramaledetto cappuccio, che mi permette ancora uno scambio, anche se minimo, con l’esterno. Relazione, mi ero dimenticato della sua presenza, pensavo di non dipendere da lei, e adesso mi schiaccia senza lasciarmi spazio sul sedile di questo stramaledetto tram. Alzando il capo, noto che il mio sconforto cresce di pari passo al suo sorriso più mi guardo intorno e più mi rendo conto, inerme, che ogni cosa, dagli atomi del quaderno sul quale sto scrivendo come un forsennato ai 20 corpi sul vagone, si basa sulla relazione, sullo scambio, sul semplice e involontario contatto. È un rapporto che non si può rompere, dal momento che nulla può esistere autonomamente.

Non si esiste, si partecipa. Io sto partecipando e mi sento legato a forza a ogni cosa. Non posso sopportare il fatto di non essere autonomo, di dipendere e di essere modellato da esistenze esterne, sebbene io mi ritenga un individuo, cosa che, evidentemente, non sono. Non posso scendere dal vagone panteistico dell’Universo, sono un passeggero incatenato al suo sedile. Voltandomi incontro di sfuggita i suoi occhi, lo comprendo dalla sua espressione: lui sa, sa tutto il bastardo, tutto questo è tornato con lui.

La periferia sfuma, il tram viaggia a gran velocità verso il centro, il nucleo d’attività, dove la relazione si infittisce e corpi su corpi salgono ad ogni fermata schiacciandomi sempre di più nell’angolo. L’ultima cosa che vedo dal finestrino, prima di soffocare, sono dei fiumi-linea a due corsie di luce, una bianca e una rossa, formate da punti-macchina in perpetuo movimento. La vista del formicaio luminoso mi stronca il fiato. Chiudo gli occhi e nel buio riprendo finalmente a respirare. Adesso sì che mi sento l’Unico. Fluttuo, nel vuoto, nel buio, nel silenzio. Ciò che libera dalla relazione è la morte. Nessun legame, il Nulla.

«Non puoi avere dimensione in un punto. Devi entrare a far parte di una linea.»

È questo che realmente voglio? Nel Nulla non posso volere e, anche se mi può sembrare, non sono me stesso. Se voglio esistere devo riaprire gli occhi e rituffarmi in ciò che più ripudio, devo scendere a compromessi. Devo accettare la relazione per poterla controllare e smettere di essere passivo. Non posso scendere dal vagone panteistico dell’Universo, adesso sono ad un tempo passeggero e macchinista.

Mi tolgo il cappuccio mentre il nero ancora mi avvolge, raddrizzo la schiena e apro gli occhi. Guardo il Morto, mi sorride. Io gli sorrido.

illustrazioni di Kate Prior su Behance.

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