Colazione in America

un racconto di Giulio Frangioni

«Sei sveglia… che ore sono?»

Ci risvegliamo in un qualche albergo di una qualche città. Ho perso l’orientamento. Lui apre il cassetto del comodino e trova un libro di ricette al posto della Bibbia.

«Non farti domande» gli dico. «Siamo in America.»
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Apre le tende. Mi giro sull’altro lato, non mi piace la luce. Non mi piaceva quando filtrava dalla tendina ingiallita della roulotte, né quando erano sconosciuti ad aprire le tende nella cabina del traghetto. E non mi piace neanche oggi.
«Dai, sai che ore sono?» chiede.
«Puoi richiuderle?» rispondo.
Lui solleva una camicia e la scuote. «Perché non abbiamo orologi?»

Affondo la testa nel cuscino. Gli occhi schiacciati, il naso premuto contro la stoffa. Sotto il lenzuolo, strofino le piante dei piedi una contro l’altra. Le sento fredde.
«Il sole c’è» dice lui. «La colazione la porteranno ancora?»
Sento che apre anche la finestra. Sposta la sedia, si stringe la cintura.

«La smetti di fare rumore?» dico.

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Il problema con lui è che so già cosa sta per fare. Si siede sul bordo del letto, di fianco a me.
«Guarda.» dice.
Entra aria fredda dalla finestra, ho un brivido dietro al collo. Mi tiro su a sedere, le gambe strette al petto. Lui è vestito, ha in mano la cartina.
«Guarda, noi siamo qui.» e indica un punto che non riconosco. «Se ieri ti è piaciuto, restiamo un paio di giorni questa città.»

La stanza è pulita, troppo ordinata. Ci sono le onde del mare dipinte sui muri.

Nigel Van Wieck by Catherine La Rose (32)

«Non mi è piaciuto.» dico.
Lui abbassa di nuovo lo sguardo sulla cartina, la tiene tutta tirata anche sugli angoli. Rialza la testa, perplesso.
«Sicura?»
Mi chiedo se oggi sia il giorno in cui getta la spugna. Non si sforza più di tenere le spalle dritte, ma sorride.

«Sicura.» rispondo.

Sono giorni che non si rade. Mi guarda e vedo che adesso ha occhiaie scure. Si allunga fino alla cornetta sul comodino, preme un pulsante e la porta all’orecchio. Si gira verso la finestra.
«Sì, buongiorno.» mormora alla cornetta. «Volevo sapere se fosse ancora possibile avere la colazione in camera.»
Stiro le braccia in avanti con uno sbadiglio. Lui si sta sfregando la barba. Ha lo sguardo oltre i palazzi arancioni, alcuni a punta, altri squadrati. Lontano, il mare.
«Allora ci porti il pranzo.» dice.
Lancia un’occhiata verso la porta. «Trentanove.» e rimette la cornetta a posto.

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«Stanno arrivando?» chiedo.
Lui annuisce. Stende le gambe verso le onde disegnate sulla parete dietro al letto.

«Vuoi prendere un treno oggi?» chiede. «La scommessa continua.»

Non ce la faccio più, scuoto la testa. «Basta con la scommessa.»
L’abbiamo stretta l’ultimo giorno sul traghetto. È lì che ci siamo conosciuti. Lui tornava a casa, io stavo scappando: non mi ha mai chiesto da cosa e va bene così. Gli ho detto che non mi piaceva nulla dell’Europa. Lui, invece, pensava fosse costosa. Stava finendo i soldi e non voleva ancora trovarsi un lavoro serio.
Gli ho detto che quasi sicuramente non mi sarebbe piaciuto nulla neanche in America. Ha voluto scommettere che non sarebbe stato così. Che avrebbe trovato lui un posto che mi piacesse e che solo allora sarebbe tornato a casa. Non so quanti giorni siano passati, ma a casa non ci è ancora tornato.

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Provo ad accarezzargli una gamba. «Non ti ha stufato questa storia?»
Il suo sorriso si allarga. «Non ho ancora vinto.»

Qualcuno bussa alla porta. Lui si alza, va ad aprire. Io cerco a tastoni dei pantaloncini sotto la mia parte de letto. Trovo una maglia lunga.
«Grazie,» lo sento dire allo sconosciuto. «Buona giornata a lei.»
Torna a passi lenti, tenendo il vassoio con due mani. «Polpette.» dice. Appoggia il vassoio al centro del letto e si abbassa a sedersi sul bordo.
Restiamo a guardare i due piatti di polpette secche, senza condimento. Mancano le posate.
Lui alza di nuovo la testa. «Tu vuoi continuare?»
«Se perdi la scommessa,» dico. «Perdo anch’io.»
Prende una polpetta fra le dita, la guarda. «Non posso perdere, finché continuiamo a giocare.»

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Morde la polpetta, la mangia tutta. Mi rendo conto che ha ragione. Ne prendo anch’io una in mano. «Sono fredde.»
Lui alza le spalle e ne sceglie un’altra dal suo piatto. «Non sono male,» si siede a gambe incrociate. «Ti ricordi quando abbiamo parlato di “Colazione da Tiffany”?»

Stringo le labbra, non ricordo.
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«Era notte,» continua. «Stavamo tornando alla roulotte dopo aver bevuto a casa dello svedese fissato con il jazz.»
Ora mi ricordo, ma non lo fermo.
«Mi hai detto che ti sei affezionata a quel film perché quando da bambina vivevi con tua nonna, lo guardavate ogni settimana.» mangia una polpetta e poi un’altra. «È stata l’unica volta che mi hai parlato della tua famiglia.»

Continua a guardarmi.

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«Non so nient’altro della tua infanzia.» Si alza, pulendosi le mani sui pantaloni. «E niente, mi sono sempre dimenticato di dirti che anche a me è piaciuto molto quel film.»
Guardo il vassoio: il mio piatto è pieno, il suo vuoto. Gli sono piaciute davvero.

Finisco di vestirmi. Lui apre la porta e, prima di uscire, prende il libro di ricette dal cassetto del comodino. «Hai mangiato poco.»

Indosso gli occhiali da sole, per nascondergli il mio sguardo. Senza occhiali si vedrebbe che sto mentendo, quando dico che le città non mi piacciono. Voglio che questa scommessa continui per sempre. E lui lo sa.

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tutti i dipinti di Nigel van Wieck.

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